Terra spromessa è il nuovo libro ibrido, un saggio storico romanzato, di Gaetano Fera, professionista della consulenza fiscale...
Terra spromessa è
il nuovo libro ibrido, un saggio storico romanzato, di Gaetano Fera,
professionista della consulenza fiscale e amministrativa con la passione per la
scrittura e il racconto delle vicende dimenticate della storia della Calabria e
del Meridione d’Italia.
Pubblicato da Mauro Pagliai Editore, Terra
spromessa è la narrazione delle battaglie dei contadini calabresi negli
anni quaranta e cinquanta del secolo scorso; una pagina decisiva nel passaggio
da una civiltà improntata a un solido feudalesimo a un’altra fase, non meno
drammatica, quella della goffa corsa all’industrializzazione che avrebbe
portato al ripudio e alla scomparsa della civiltà contadina. Pagina centrale
della storia dell’estremo lembo della Penisola italiana sì, ma colpevolmente
rimossa dalla memoria collettiva.
Dedicato ai dimenticati del Sud, Terra
spromessa è un libro denuncia che risveglia il senso di indignazione per le
beffe inflitte ai braccianti – e, di riflesso, a tutto il popolo calabrese –,
dopo secoli di soperchierie subite dagli agrari.
Il libro di Fera è un’opera che fa rumore, pregna di aneddoti e vicende, dal
secondo dopoguerra in poi, scivolati in quel dimenticatoio dalla bocca sempre
troppo larga, buia e profonda che ha inghiottito e continua a inghiottire tante
storie d’Italia.
Come l’immissione delle am-lira, il denaro stampato dagli americani dopo lo
sbarco nel Meridione che andò a sostituire le povere lire della sconfitta
Italia causando una spaventosa inflazione e impoverendo un popolo già ridotto
alla fame dalla disastrosa guerra. Altre storie di quegli anni messe sotto il
tappeto della malafede pubblica sono la liquidazione dei boschi dell’Appennino
calabrese a favore degli inglesi, che privò gli ignari – e ignavi – calabresi
della propria “ricchezza spontanea”, e la iattura dell’emigrazione –
immancabile questione –, riacutizzatasi dopo le sanguinose stagioni a cavallo
fra la fine del Diciannovesimo e l’inizio del Ventesimo secolo, questa volta
verso le miniere belghe secondo uno scellerato accordo di scambio fra le due
nazioni, l’Italia e il Belgio, denominato, inequivocabilmente,
“minatore-carbone”.
In particolare, i fatti raccontati dall’autore sotto forma di romanzo si
svolgono a Falerna e Nocera Terinese, centri della costa tirrenica calabrese un
tempo ricchi di terreni in mano a pochi proprietari e perciò malamente lavorati
e lasciati divorare dagli sterpi pur di non essere ceduti alle braccia che quei
terreni li avrebbero rimessi a coltura. L’occupazione delle terre si configurò
quindi come un’azione rivoluzionaria che andava a scardinare una tradizione
secolare, distinta da silenzi e soprusi.
Angariati dai padroni, tutt’altro che intenzionati a rinunciare ai loro storici
benefici in vista della Repubblica, i contadini del Mezzogiorno furono legati
da sorti in gran parte uguali: l’agitazione, di fatti, riguardò non soltanto la
Calabria, ma pure la Basilicata e la Sicilia – nell’isola si ricorda l’attentato
del 1° maggio 1947, festa dei lavoratori, a Portella della Ginestra, che lasciò
sul campo i corpi di undici manifestanti e che fu attribuito, con molti punti
oscuri, a uomini di Salvatore Giuliano, il noto bandito e indipendentista
siciliano ritrovato morto qualche anno dopo in circostanze, anche in questo
caso, mai del tutto chiarite.
Momento campale dell’affrancamento della classe contadina, la stagione delle
occupazioni delle terre portò alla stesura, nel 1950, di una riforma agraria
più equa, attesa da secoli, che nelle intenzioni avrebbe gestito la
distribuzione delle terre incolte e ridotto i privilegi dei possidenti
terrieri, dando il giusto riconoscimento a chi quelle terre le lavorava col
proprio sudore.
Nel corso della lettura, si susseguono altri avvenimenti storici, traversie che
rimandano a ulteriori approfondimenti: la legge Gullo del 1944 (dall’allora
ministro dell’Agricoltura e delle Foreste, il calabrese Fausto Gullo,
conosciuto come il Ministro dei contadini), che anticipò la riforma agraria
assegnando porzioni di terreno trascurato ai contadini “affamati di terra”; i
moti che diedero vita, qualche settimana prima della liberazione d’Italia, alla
breve parentesi della Repubblica Rossa di Caulonia; l’uccisione nelle campagne
di Calabricata di Giuditta Levato, madre di due figli e incinta di sette mesi,
prima vittima degli scontri fra braccianti e latifondisti; lo strano attentato
a Palmiro Togliatti e quei tre colpi di pistola esplosi a breve distanza ma che
non costarono la vita al leader del Pci; i giorni antecedenti il referendum
istituzionale e la seguente nascita della Repubblica, con il loro carico di
incertezze collegate al cambiamento e al reale impatto sulla società, ché “non
basta purtroppo cambiare la forma di uno Stato perché cambino il sistema di
vita, le concezioni retrograde e i rapporti sociali”.
Non può mancare, poi, un capitolo dedicato ai fatti di Melissa – forse il solo
episodio, fra quelli avvenuti in Calabria, che abbia lasciato realmente una
impronta profonda nella memoria e nella coscienza collettiva – quando
nell’ottobre del ’49 una corposa coalizione di agricoltori di numerosi paesi
della regione – si contarono circa seicento anime – occupò le terre non
soggette a coltivazione del centro agricolo del Crotonese. La risposta dello
Stato fu durissima: la carica della polizia e le raffiche di mitra sulla folla
disarmata costarono la vita a tre giovani braccianti.
Accadimenti di rilievo locale e nazionale, che collegati l’uno con l’altro,
come in una formula matematica di causa-effetto, azione-conseguenza, stimolano
le nostre riflessioni, lasciano emergere un insieme di interrogativi sul ruolo
delle istituzioni, sul peso reale e sui possibili retroscena di determinati
fatti e sulla colpevolezza degli uomini, perché, come affermava Pier Paolo
Pasolini a commento de La sequenza del
fiore di carta (episodio del film collettivo Amore e rabbia del 1969), in
alcuni frangenti della vita “non si può essere innocenti, bisogna essere
coscienti; non essere coscienti vuol dire essere colpevoli”.
Ecco, probabilmente nella storia recente della Calabria, dal termine della
Seconda guerra mondiale agli anni del progetto-scarabocchio
dell’industrializzazione della regione, il popolo calabrese non è stato
pienamente cosciente di ciò che stesse accadendo, di ciò che gli stesse
accadendo, e quindi è da ritenere, da noi privilegiati posteri, colpevole
parimenti a chi, ben lungi dal reputarsi innocente e con mala coscienza,
incentivava l’impoverimento e l’abbrutimento della Calabria, il propagarsi del
cancro del conformismo e la svendita totale dell’identità regionale.
“Noi non chiediamo carità, ma il diritto di lavorare.” È una frase che compare
spesso, sotto diverse forme e con differenti impeti, nell’opera di Gaetano
Fera; una frase semplice, financo banale a una lettura sommaria, ma che forse,
in questi anni incerti di bonus, mance e contentini per non lavorare o
procrastinare il lavoro – lavoro che, fino a prova contraria, resta fondamento
della carta costituzionale della nostra Repubblica democratica –, avremmo
bisogno di sentire più spesso.
Data recensione: 22/02/2024
Testata Giornalistica: Glicine
Autore: Antonio Pagliuso