Per la prima volta, dopo rarissime apparizioni in qualche mostra, è stato pubblicato integralmente in facsimile
Per la prima volta, dopo rarissime apparizioni in qualche
mostra, è stato pubblicato integralmente in facsimile su pergamena (Edizioni
Polistampa) il cosiddetto Libro del
Chiodo, così denominato per i chiodi di ferro – di cui uno ancora presente –
apposti sui piatti lignei della legatura, in cui sono contenuti anche i testi
delle due condanne di Dante Alighieri. Il registro, da qui il nome, pare essere
stato concepito appunto per «inchiodare» perpetuamente e in ogni luogo
(perpetuo, omni tempore, alibi) alla impotenza interi settori della società
fiorentina, comprendenti sia intere consorterie familiari di antica tradizione
che individui di grande spicco, tra cui appunto Dante Alighieri, al quale il
podestà Cante de Gabrielli da Gubbio con due sentenze comminò il 27 gennaio
1302 la condanna all’esilio per due anni e al pagamento di 5.000 fiorini
piccoli e il 10 marzo successivo la condanna alla pena capitale. Con la
trascrizione dei loro nomi nel registro si “inchiodavano” per sempre i
condannati e i loro discendenti: «il libro diveniva – come scrive la curatrice
Klein – uno strumento essenziale, “costituzionale”, per stabilire gli equilibri
della classe dirigente cittadina e i relativi criteri di distribuzione degli
uffici». La condanna che fu determinata soprattutto dalla sua fiera, non
retorica, opposizione a papa Bonifacio VIII e dal ruolo da lui avuto nel
biennio 1299-1301; infatti, nell’assemblea plenaria dei Consigli cittadini il
13 settembre 1301, quando appunto si dibatté se accettare come paciere Carlo di
Valois, Dante, intervenendo per primo, «usò toni così aspri che il notaio della
Consulta lasciò in bianco lo spazio di tre righe che doveva accogliere il
parere da lui espresso». Come si sa Dante respinse l’accusa e rifiutò il
pagamento, per cui il 10 marzo successivo fu condannato alla pena capitale e
iscritto nel Libro del Chiodo. Riporto il testo della sentenza: «Ipsos et
ipsorum quemlibet ideo habitos ex ipsorum contumacia pro confessis, secundum
iura statutorum. et ordinamentorum comunis et populi civitatis Florentie,
ordinamentorum iustitie et ex vigore nostri arbitrii et omni modo et iure
quibus melius possumus, ut si quis predictorum ullo tempore in fortiam dicti
comunis ervenerint talis perveniens igne comburatur sic quod moriatur in hiis
scriptis sententialiter condempnamus». (Gli stessi e ognuno anche ritenuto
degli stessi con l’uso della forza per ammissione degli stessi, secondo le
norme degli statuti e degli ordinamenti del comune e del popolo della città di
Firenze, per la giustezza degli ordinamenti e dal rigore del nostro giudizio e
in ogni modo e ai quali a buon diritto gioviamo, affinché se qualcuno dei
predetti in ogni tempo osò contro il pubblico diritto giungendo a tali
nefandezze sia col fuoco bruciato cosicché muoia con questi scritti in forma di
sentenza sia condannato). L’accusa a Dante più nota è quella di «baratteria»
(«in quanto commise o per proprio interesse o a favore di altri baratterie,
guadagni illeciti, inique estorsioni in denaro o in cose... e perché ricevette
denaro o altri beni e impegni scritti o tacite promesse di denaro o di altre
cose per l’elezione di qualche nuovo priore... e perché ricevette qualcosa
indebitamente, illecitamente e ingiustamente per alcuni ufficiali da eleggere e
da collocare nella città o nel consiglio di Firenze o nel distretto o
altrove... e perché commise frode e baratteria in denaro e cose del comune di
Firenze»); a questo proposito, come ben precisa la Klein, bisogna ricordare che
essa «era una imputazione, per così dire, tecnica: la corte del podestà che
inquisiva i processi per abusi vari d’ufficio era appunto quella dell’apposito
giudice “super baracteriis, iniquis extrorsionibus et lucris illecitis” , reati
sotto i quali per antonomasia, ricadevano le accuse di carattere più propriamente
politico». Detto che le sentenze vengono scritte in latino, medievale ma pur
sempre lingua universale come universale, nel tempo e nello spazio, doveva
essere la condanna (il condannato era estromesso per sempre dalla comunità
civile non solo fiorentina ma europea), dopo un’introduzione
burocratico-cancelleresca la successione delle sentenze è preceduta da un
preambolo morale e civile (trascritto in traduzione letterale), che ci aiuta a
comprendere le finalità e gli intenti con cui operavano i giudici e la visione
che essi avevano della comunità civile: «Come quando l’iniqua rapacità del
pastore è rivolta alla disgregazione del gregge non c’è allora una maggior’lupina’offesa
e nessun flagello più dirompente a recar danno, così similmente accade quando
coloro che il popolo volle onorare affidando la propria tutela e sicurezza,
affinché essi proprio come pastori premurosi e difensori onestissimi
amministrino il popolo con un ordine favorevole a sostenere i retti sentimenti,
pervertono gli stessi in contrarie e disoneste turpi azioni con volto coperto
da nera caligine, poiché se diversamente gestiscono la cosa pubblica prestando
attenzione a disoneste estorsioni e utilizzando le mani per illeciti guadagni
contro il dovere morale dell’onestà pertanto è necessario colpire con la pena
della punizione coloro che commettono tali nefandezze affinché li riconoscano
apertamente per il crimine commesso e a tutti gli altri i quali ne furono
allettati serva da esempio».
Data recensione: 26/02/2021
Testata Giornalistica: Messaggero Veneto
Autore: Prof. Ermes Dorigo