Immagino che sia andata così. Un giornalista fiorentino di lungo corso finisce nelle mani salvatrici
Immagino che sia andata così. Un giornalista fiorentino di
lungo corso finisce nelle mani salvatrici di un cardiologo e geriatra, Andrea
Ungar: per il geriatra c’era ancora tempo, per il cardiologo no. Fanno
amicizia, e il risanato, Riccardo Catola, gli chiede da dove venga il suo
cognome. Viene dall’Ungheria, naturalmente. Ma è arrivato per vie molto
traverse, portato da suo padre. Ferenc Ungar ha 83 anni, è stato a sua volta
primario ortopedico a Firenze, dov’è oggi console onorario del suo paese d’origine.
La storia sua e dei suoi è passata accanto o attraverso le vicende cruciali del
Novecento europeo. Nato da padre e nonni ebrei e circonciso, Ferenc era stato
battezzato dalla madre cristiana protestante, ed era scampato alla sorte di
centinaia di migliaia di ebrei ungheresi, suo padre fra loro. Era sopravvissuto
bambino al terribile assedio di Budapest, aveva vissuto ragazzo nell’Ungheria
sovietizzata, aveva partecipato ventenne alla rivoluzione del ‘56: un corteo improvvisato
di giovani che si erano voltati indietro e avevano scoperto che un popolo li
stava seguendo. Poi la repressione sovietica, 4 mila carri armati, 200 mila
militari, la fuga, rocambolesca come sono le fughe, verso l’Austria, la prima
Coca Cola (bisogna essere liberi di berla per decidere di non berla) e
l’improvvisata destinazione italiana, gli incontri con persone solidali indignate
dall’inerzia dell’occidente e dalla complicità del comunismo fedele al
Cremlino, la vita nuova: la Roma intellettuale e artistica cui il giovane è
introdotto dalla moglie ungherese di Mario Pannunzio, Mary, le ragazze. E le
scelte fatidiche, la carriera di medico e specialmente Anna, donna e sposa
della sua vita, e la progenie di tredici, finora. Questa trama sommaria aspettava
solo di essere svolta e raccontata, tanto più che Ferenc ha una gran memoria e
un talento per i dettagli significativi e le coincidenze drammatiche o
divertenti. Chi legge si accorge subito che Catola non è il giornalista che
mette in pagina il racconto di un personaggio dalla vita memorabile. Al
contrario, ha trovato una grand’occasione per rimettere insieme la storia
grande e minuta di un secolo, che è stata anche il contesto della vita pubblica
e personale sua e degli europei arrivati fin qua. E ha allargato i cordoni del
racconto, senza soggezione. Sissi e Franz Joseph, venerati dal nonno ebreo del
protagonista e, specialmente lei, dagli ungheresi che aveva prediletto. Si può
riscrivere di Sissi, dunque, e di Bela Kuhn e di Lukács e di Kossuth e di Hidegkuti
e di Zsa Zsa Gabor. Perfino della Shoah: è stata tanto raccontata, ed era stata
taciuta tanto, perché non raccontarla ancora una volta? Dopotutto nessun
lettore troverà di sapere tutto, di ricordare tutto. Catola ha scritto in prima
persona, quella di Ferenc, ma facendone per così dire una prima persona
condivisa, una mezzadria letteraria rispettosa delle precedenze. C’è, fra i
vantaggi della lettura, la scoperta dei tanti ed emozionanti legami fra le
nostre storie più belle e gli ungheresi, gli scrittori, le attrici, i
calciatori, i musicisti, gli scienziati, le filosofe, i poeti… Ognuno ha la sua
Ungheria, del resto, e l’Ungheria fa di tutto – davvero, di tutto – per dare a
ciascuno l’Ungheria di cui ha voglia. Attila József per il tramite di Umberto
Albini, per me, e il Clemente Manenti di “Ungheria 1956” (Sellerio) e Livia
Cases e, a Firenze, i Cataluccio e l’appartamento della famiglia Gheno. Il
libro, “Chiamatemi Ungar”, con un corredo fotografico, è edito da Polistampa e
ha una prefazione di Franco Cardini, il quale partì nell’autunno del ’56 con
uno o due compagni di prima liceo alla volta di Budapest, per andare a combattere
e morire coi giovani eroi ungheresi. Impresa interrotta, banalmente, prima del
Brennero, ma buona da ricordare. Da quante e per quante strade diverse noi
ragazzi di allora sognammo Budapest.
Data recensione: 05/06/2020
Testata Giornalistica: Il Foglio
Autore: Adriano Sofri