Tra gli amici di Gesù, la grande tradizione cristiana ha identificato «il discepolo che Gesù amava»
Un romanzo epistolare di don Vincenzo Arnone ricostruisce la
vita dell’«amico di Gesù»
Tra gli amici di Gesù, la grande tradizione cristiana ha identificato «il
discepolo che Gesù amava» in Giovanni figlio di Zebedeo, uno dei dodici apostoli,
ai quali sono attribuiti il vangelo che porta il suo nome (il cosiddetto quarto
vangelo), tre lettere e l’Apocalisse, composta nell’isola di Patmos. Si
tramanda che, dopo la Pentecoste, lasciata Gerusalemme egli si stabilì dapprima
in Samaria e poi in Asia Minore, nella regione di Efeso, dove attorno a lui si radunò
una pluralità di comunità. San Girolamo riferisce che a Efeso Giovanni, ormai
vecchissimo e portato sulle spalle dei suoi discepoli all’assemblea liturgica, non
potendo più parlare a lungo si limitava a ripetere con insistenza: «Piccoli
figli, amatevi gli uni gli altri». Di fronte all’obiezione dei suoi fratelli,
stanchi di questo ritornello, un giorno rispose: «Questo è il comandamento del
Signore e, se fosse anche il solo a essere osservato, basterebbe ». Il
discepolo amato trasmette nient’altro che il comando di amare e di lasciarsi amare:
questa la sintesi di un’intera vita, questo il fascino del vegliardo di Patmos.
Tra coloro che hanno cercato di penetrare nel segreto dell’esistenza di questa
altissima figura spirituale va annoverato, da ultimo, don Vincenzo Arnone. Presbitero
siciliano da tempo residente a Firenze, con una fortunata intuizione egli dà
vita a un «romanzo biblico» sotto forma di narrazione epistolare. Arnone
immagina che nell’anno 110, due decenni dopo la morte dell’apostolo, un
contadino del posto, Ermogene, tramandi la memoria di Giovanni scrivendo all’amico
Marone una lunga lettera su di lui.
L’evento decisivo della sua vita, la conoscenza di Gesù, viene collocato a
vent’anni. Dopo aver tentato invano di sottrarsi all’amore di quel rabbi così
particolare (a dire che spesso la fatica più grande è quella di lasciarsi
amare…), mediante la fuga in una zona desertica, Giovanni cedette e intraprese
con lui un rapporto di profonda amicizia. Al punto che, secondo il quarto
vangelo, lo seguirà fin sotto la croce e nel mattino di Pasqua correrà al
sepolcro vuoto, senza peraltro avere bisogno di entrarvi per credere alla
resurrezione.
Affascinato dalla sua personalità, Ermogene lo descrive come «il silenzioso»,
perché «passava lunghe ore silenziose a meditare, a guardare nel vuoto o in
direzione di Efeso. Non so perché, non lo spiegò mai, né a me né ad altri.
Tutto è rimasto nascosto dentro il suo cuore, come un segreto, coperto da un
velo. Notavo, qui a Patmos, il suo sguardo penetrante e comunicante ». E più
avanti aggiunge: «Non che non avesse nulla da dire, ma al contrario pensava tra
sé, meditava, rifletteva; avrebbe voluto arrivare fino in fondo alle cose, ma
non sempre vi riusciva». Curioso che ciò venga detto proprio di chi ha saputo
scandagliare le profondità del mistero, nel prologo del vangelo, aperto da
questo celebre verso: «In principio era la Parola, e la Parola era rivolta verso
Dio, e la Parola era Dio». Eppure è proprio così: più si va a fondo, più si comprende
di non sapere; o meglio, si capisce che c’è sempre qualcosa che ci manca, che
non si finisce mai di ricominciare. Esperienza paradossale, eppure così
marcatamente esistenziale…
Forse è anche per questo che Giovanni ha meditato in modo particolare su quella
conoscenza indicibile che viene dall’amore, riassunta nel suo appoggiare la
testa sul cuore di Gesù nell’ultima cena. Conoscenza amante che gli procurò una
gioia inesprimibile, che niente e nessuno avrebbe mai potuto rapirgli. Per
questo in una sua lettera Ermogene annota che «Giovanni era grandemente gioioso
di ciò che vedeva e ascoltava nelle opere del Nazareno. Percepiva in sé una
vita nuova che cominciava ad animare perfino il modo di vedere le persone e le
cose d’intorno, mentre nulla sfuggiva alla sua attenzione amorosa». Questa la
vera contemplazione: vedere le cose con lo sguardo di Dio, con lo sguardo di
Gesù.
Quello sguardo capace di infondere fiducia nella vita. Capace di porre in chi
se ne lascia avvolgere la capacità di «credere all’amore». Questo non a caso il
ritratto ultimo fornito da Giovanni dei discepoli, come lui, di Gesù: «Noi
abbiamo creduto all’amore ». Più in generale, tutti gli umani sono sensibili all’importanza
del mettere fiducia nell’amore, perché da questo dipende il senso dei sensi di
ogni vita sotto il sole.
Ciò che Gesù chiedeva, o meglio destava in chi incontrava, era nient’altro che
la possibilità di credere all’amore. Giovanni lo ha compreso mirabilmente e lo
ha insegnato, fino alla fine. Ermogene lo ha tramandato. Meravigliosa
semplicità, infinita responsabilità, anche per noi.
Data recensione: 05/09/2020
Testata Giornalistica: Tuttolibri de «La Stampa»
Autore: Enzo Bianchi