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In quasi 400 pagine la saga di un italiano tra il ’44 e Tangentopoli. Una sorta di Candido volterriano che attraversa nel profondo il nostro secondo Novecento

 In quasi 400 pagine la saga di un italiano tra il ’44 e Tangentopoli. Una sorta di Candido volterriano che attraversa nel profondo il nostro secondo Novecento
I romanzi storici, e anche quelli di formazione, di solito ruotano attorno a un eroe. Sia Lucien de Rubempré nella Commedia umana di Balzac, sia Pierre in Guerra e pace, sia Jean Cristophe nell’omonima saga di Romain Rolland rispondono a questa casistica. Un eroe a tratti velleitario, spesso sconfitto, ma pur sempre un protagonista: un personaggio che non si limita a subire gli avvenimenti, ma cerca d’influire su essi. Amaritudine (Polistampa, pp.392, € 15), la saga che Massimo Griffo ha ambientato nell’Italia della Prima Repubblica, costituisce un’eccezione. Invano si cercherebbe nelle quasi 400 pagine di questo romanzo un protagonista in positivo. L’eroe con l’E maiuscola latita da queste pagine, come del resto latita anche dagli avvenimenti che vi sono narrati e dall’Italia che vi è descritta.Il romanzo ha inizio con la primavera del 1944 e le settimane che precedono l’ingresso a Roma delle truppe della Quinta Armata. Gualtiero, l’antieroe della storia, all’epoca un ragazzino sfollato con la zia Mariuccia sui Colli Albani, è preso di mira da un quadrimotore statunitense di ritorno da un bombardamento mentre aiuta la nonna a raccogliere la cicoria in un prato. La donna muore sul colpo; il bambino si salva grazie all’intervento di un ufficale medico tedesco, che curando lui pensa alla figlia Else lasciata in Germania. Oltre a perdere la nonna, vittima della violenza assurda della «fortezza volante», Gualtiero, negli stessi giorni, perde anche il padre – che pure aveva scelto la resistenza ai tedeschi – caduto anche lui, vittima della guerra civile. Nel frattempo, tornato a Roma dalla madre Anna, assiste all’ingresso delle truppe americane, col suo contorno di entusiasmi e miserie: le ragazze che lanciano fiori ai soldati americani, la fame che perdura se non aumenta, uomini e donne che cercano d’arrangiarsi, con la prostituzione e il mercato nero. La zia Mariuccia, sorella della madre, è reduce da un fuggitivo amore con un ragazzo “con gli stivaletti e il baschetto nero” arruolatosi nella Rsi, ma diventa comunque una “segnorina”, salvo poi sposarsi con un abile affarista, Luciano, che le assicura il benessere in cambio della sua bellezza procace e delle sue continue infedeltà. La sorella maggiore dapprima si ribella al suo comportamento ma poi finisce per concedersi a un compagno d’affari di Luciano, l’ambiguo Osvaldo, che però, per le sue tendenze omosessuali, più che a lui punta al piccolo Gualtiero, coinvolgendolo in un torpido ménage a tre col suo giovane amante.Traumatizzato da tutto, in difficoltà nell’approccio con le donne, costretto a studi di ragioneria che non gli sono congeniali, Gualtiero cerca un riscatto nella politica. La locale sezione del Pci l’accoglie a braccia aperte come orfano di un partigiano. Ma il suo spirito critico e il suo desiderio di purezza l’inducono a prendere le distanze dal partito dopo l’invasione dell’Ungheria. La scelta, paradossalmente, delude lo zio Luciano, ben introdotto nel sistema di potere democristiano ma comunque favorevole a un nipote come sponda a sinistra. Questi comunque dopo il diploma lo prende a lavorare con sé rendendolo complice dei suoi grandi e piccoli intrallazzi, che comprendono anche le tangenti largite al Pci per le importazioni dall’Urrs. Sono anni di apparente spensieratezza, in cui Gualtiero, superato il trauma della violenza subita, si diverte con le attricette che gli procura la zia Mariuccia, e Anna trasforma il suo piccolo laboratorio di modista in un grande atelier. Col centrosinistra e ancor più con gli anni ’70, però, la situazione degenera. Luciano sposta i suoi capitali all’estero, Anna, persa buona parte della clientela, si riduce a cucire col figlio jeans ed eskimi per l’azienda di Osvaldo, capace di fare un business anche delle mode anticonsumistiche. Gualtiero, licenziato da Luciano e accollatasi una figlia avuta da una ragazza conosciuta quando faceva l’angelo del fango nella Firenze alluvionata, sopravvive aiutando la madre, ma poi, un po’ per amore di un’ex compagna del Pci, un po’ per disgusto della società borghese, diviene un fiancheggiatore delle Br. Per il rifiuto di fare i nomi dei complici si fa quasi sei anni di carcere, mentre i suoi mandanti trovano lavoro in Rai. Quando ottiene la libertà, la figlia, che non ha mai accettato la mancanza della madre, è morta drogata e a Gualtiero non resta che sopravvivere, eterno parente povero della mensa dei parenti ricchi, facendo da galoppino per Osvaldo e per Luciano, tornando sulla cresta dell’onda negli anni del pentapartito. Anche in questo caso, però, finirà per pagare per eccesso di generosità colpe non sue, o almeno non del tutto sue. Caduto nella rete di Mani Pulite, finisce di nuovo in prigione, anche stavolta per il rifiuto di coinvolgere i suoi protettori.Fin qui la trama del romanzo, con la sua architettura ambiziosa e anche con le sue ingenuità, che fanno di Gualtiero una sorta di volterrano Candide del secondo Novecento italiano. Ma il riassunto necessariamente scarno di 400 pagine e di 49 anni di storia italiana, da Roma «città aperta» a Tangentopoli, attraverso tragedie come quella di Marcinelle e del Vajont, non rende giustizia al valore di questo libro. Come in certi saggi le note risultano più istruttive del testo, così in Amaritudine dettagli, sfumature, particolari all’apparenza marginali appaiono più avvincenti e convincenti dell’impianto complessivo. Che sia potuto esistere un antieroe sfortunato come Gualtiero, capace di finire in carcere nel volgere di un decennio per terrorismo e per corruzione, di finire orfano della nonna per colpa degli americani e del babbo per colpa dei tedeschi, di ritrovarsi ragazzo padre negli anni ’60, può apparire improbabile. Ma personaggi tutt’altro che inattendibili sono tutti i comprimari dell’opera, proprio per quell’impasto mescolanza di egoismo e di onestà, di cinismo e d’ingenuità, da cui è intriso il loro animo. La bella Mariuccia, passata nel volgere di pochi mesi dall’amore con un «repubblichino» alle tresche con gli americani, per poi scorgere nel nuovo clima degli anni ’70 un’occasione per andare a letto con gli amici dei figli, rivela tratti di umanità, nei confronti di Gualtiero, sconosciuti al primogenito Giulio, presentato da Griffo come l’anticipazione di una nuova razza di corruttori ben più cinica dei padri.L’arroganza di Luciano appare evidente, ancor più che nei suoi sporchi affari, nel suo modo di guidare “facendosi sotto coi fari accesi per schiacciare in modo imperioso chi lo precedeva nella corsia autostradale”. Lo stesso sgradevole Osvaldo, vittima e carnefice a causa della propria omosessualità, non riveste nel romanzo il ruolo di personaggio del tutto negativo. E non è forse un caso se proprio a questo personaggio ambiguo spetta, nell’economia dell’opera, il compito di svelare agli occhi dell’inguenuo protagonista i più ambigui retroscena della Prima Repubblica, dai fatti di Genova del ’60, ricondotti a una manovra di Moro per dimostrare l’ineludibilità di una svolta a sinistra con la caduta di un governo appoggiato dal Msi. E una sottile capacità di cogliere la dinamica storica al di fuori dei manicheismi e delle frasi fatte si scorge anche nei giudizi di Griffo, uomo di centrosinistra – ma negli anni Ottanta collaboratore del Giornale di Indro Montanelli – che per esempio, rievocando la morte, attribuita ai “neofascisti”, dello studente universitario socialista Paolo Rossi all’Università di Roma, nel ’66, scrive che “forse non era stato pestato, però gli scontri c’erano stati e lo studente era morto, qualcuno doveva averlo sulla coscienza”.O, come quando, commentando il disgusto per la corruzione dilagante che induce Gualtiero a simpatizzare per le Br, osserva che “nel suo ignorare la storia non sapeva che i suoi pensieri erano simili a quelli che sei decenni prima avevano agitato, con altro esito, la mente di Mussolini”.Grazie anche a osservazioni come questa, il «Candido del XX Secolo» che Griffo ci propone assume le caratteristiche di una puntuale controstoria d’Italia dal 1944 al ’93, e il fatto che non abbia per protagonista un eroe ma un antieroe non deve scandalizzare. La Prima Repubblica, forse, non si meritava di meglio.
Data recensione: 13/12/2008
Testata Giornalistica: Il Secolo d’Italia
Autore: Enrico Nistri