Dopo Istanbul (1990), Del paggio e della pietra (1991), e la trilogia La fabbrica del tempo (2001), che univa all’eponima altre due sillogi precedenti,
Dopo Istanbul (1990), Del paggio e
della pietra (1991), e la trilogia
La fabbrica del tempo (2001), che univa
all’eponima altre due sillogi precedenti,
Lancette e La catena dei giorni,
esce del poeta fiorentino Francesco
Giuntini la raccolta Il senso della misura,
che conferma il talento o genio
poetico dell’autore. Che si rivela a iniziare
dalla forma musicale e sapiente
dei componimenti: tranne quattro più
brevi, sonetti in endecasillabi perfetti,
eppure – per così dire – inavvertibili
per il movimento ricco e variato degli
enjambement.
Come già nella trilogia, il poeta non
compone una raccolta di testi scritti
negli anni, ma li dispone in un disegno-
struttura, frutto di una meditazione
lucida e attenta: un cono d’infinito,
al cui vertice in basso c’è lo sguardo.
I componimenti sono 97, distribuiti
in numero crescente nelle tre sezioni:
1. Degli elementi sensibili, 2. Dalle terre
emerse, 3. Per le sfere celesti, e sotto
un profilo strettamente letterale il libro
si presenta strutturato come una
cosmogonia in versi, un viaggio intellettivo
e interstellare che ha inizio, quasi
con procedimento cinematografico,
con un movimento della macchina da
presa, dall’immagine della fiammella
del cero che le dita del bambino attraversano
nella poesia iniziale Il fuoco,
fino ad arrivare alla materia ignea delle
stelle, distanti da noi anni luce, nell’infinitamente
grande dell’universo. Da
questo primo componimento si dipanano
i motivi fondamentali e unificanti
del libro: la memoria; il fuoco; lo spazio.
Ma tante e pregnanti sono le parole-
chiave, i nodi tessuti dall’autore, da
farne quasi opera inesauribile, di profondità
talvolta vertiginosa.
Scriveva l’autore, in una comunicazione
del gennaio 2003: «Sul tema della
distanza sto lavorando, o forse annaspando,
facile annegare, perdersi. Inseguire
la cifra, un gioco d’azzardo».
Ed è proprio la distanza a dare alla
struttura poematica una disposizione
ascensionale: dal vicino (la fiammella
del cero, che si può vedere e toccare,
percepibile con i sensi, così come gli
altri elementi sensibili della prima sezione)
al distante anni luce come i pianeti,
i satelliti, le galassie, le costellazioni
delle sfere celesti della terza sezione.
Non è un caso che l’ultimo sonetto
dell’opera sia intitolato Anni luce.
La distanza fisica dei corpi celesti si
carica di un ulteriore significato nella
terna di sonetti dedicati alla Madre,
nella seconda sezione del libro: Io ti
vengo a cercare […] Io ti vengo a salvare,
tu non credi | sia possibile, vedi
più lontano | di me, quando rivolgi nel
grigiore || quell’iride che so, quando rinunci
a | chiamarmi, a dirmi quanto la
distanza | possa rendere vano seguitare.
Qui, la distanza è lo spazio che nessuna
legge fisica può calcolare, il muro
della terra, che separa i vivi dai morti,
che nemmeno la corrispondenza d’amorosi
sensi riesce a scalfire. Altrove
la distanza è condizione esistenziale, su
cui s’interroga ad esempio Mésarthim,
la stella della costellazione dell’Ariete.
La domanda che chiude il sonetto (Che
significa| esistere distanti, a quale scopo)
cade nel vuoto come una domanda
retorica.
Vuoto, fuoco e materia si contendono
lo spazio infinito dell’universo (Il
vuoto e il fuoco | ricolmano lo spazio e
così piccola | parte sembra rimasta alla
materia). In Giuntini il fuoco coagula
una moltitudine di significati, a partire
dal concetto eracliteo di energia, anima,
logos. Il sacro fuoco conserva inoltre
la memoria dell’origine urania, prima
che terrena, dell’uomo, nato dalle
ceneri dei Titani, e il fuoco che lo abita
è simbolo di passione e ragione,
come ne L’eclisse: Trattengo, | come il
fuoco sepolto nel mio seno, || la mia
storia con te, che d’improvviso | adesso
ti nascondi. Vedo fiamme | sul perimetro
nero del tuo cuore. Il fuoco è poi l’equivalente
dell’esistenza transeunte
dell’uomo come dell’accendersi e svanire
di una stella; segno e cifra del destino.
Difficile, però, leggere, decifrare
le sparse cifre delle stelle, il senso della
luce. Nella visione del poeta Giuntini
siamo distanti anni luce dall’universo
finalisticamente inteso (lunga strada|
per dire nulla al nulla), raramente
si avverte lo sguardo di Dio, quando
non si volge altrove, come nella chiusa
di Terra: A quale limite,| domando,
possa giungere la notte,| mentre l’occhio
di Dio si volge altrove.
Nella trilogia La fabbrica del tempo
prevaleva, con la categoria del tempo, il
linguaggio del mito e del quotidiano;
qui, con la dimensione dello spazio,
prevale il linguaggio della fisica e dell’astronomia.
All’esattezza e precisione
del lessico fa da controcanto l’incertezza
della meditazione, che si esprime
mediante l’iterazione dei verbi del
chiedere, e da una fitta rete, a livello
sintattico, di proposizioni interrogative,
mimetizzate quasi sempre dall’assenza
di interpunzione, come dall’assenza di
risposte. Ciò è evidente già a partire
dalla quartina posta in apertura dell’opera,
quasi un exergo, o voce fuori
campo: Di che discorre il segno della
luna | coi numeri del tempo e quale cifra
| per ricambiare auguri ed almanacchi
| del possibile ed oltre, stare al
gioco… La diffidenza della poesia-dialogo
nei confronti del pensiero assertivo
è sottolineata in maniera evidente da
uno stile dilemmatico, proprio del dubbio
filosofico ed esistenziale della materia
cogitante, che si tormenta nel dialogo
col vuoto. Abbondano pertanto le
congiunzioni disgiuntive: “o”, “oppure”,
e l’avverbio dubitativo “forse”.
Protagonista dell’ultima sezione del
libro, in cui l’uomo è per lo più assente,
è la materia ignea delle stelle: trentuno
componimenti prendono il titolo
da nomi propri di stelle di 17 costellazioni, ognuna con il proprio segreto, la
propria storia di metamorfosi e pietri-
ficazione, a porre enigmi da decifrare
nel cielo. Nell’universo di segni delle
costellazioni è metaforicamente specchiata
la vicenda umana di passione e
ragione, che si presta ad essere letta altrimenti
da come l’autore può averla
intesa, grazie al sovrapporsi di piani e
sensi fisici e metafisici, che baluginano
nell’universo dei testi come stelle di
grandezza variabile.
«Basta poco tempo dalla pubblicazione
di un libro – scrive l’autore (nell’agosto
2006) – per vederlo muoversi,
nel poco spazio che ai nostri libri è concesso,
come soggetto di una vita propria
e da noi sempre più autonomo;
perché l’autore diventi, di quel libro, un
lettore come gli altri, sorpreso a volte
da una battuta, un’immagine che incontra.
Basta poco tempo per fare del
testo una nuova conoscenza, anche con
l’aiuto di altri lettori». La possibilità
di letture multiple rende Il senso della
misura – come già la precedente – opera
necessaria e inesauribile, di quelle
che (riecheggiando Hofmannsthal)
«sempre si leggono con occhi nuovi».
Data recensione: 01/09/2006
Testata Giornalistica: Caffè Michelangiolo
Autore: Sandra Di Vito