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Il catalogo della mostra “Sogni d’Arcadia. Arkadische Träumerei. Sigmund Lipinsky e gli ultimi tedeschi-romani”, costituisce...

Il catalogo della mostra “Sogni d’Arcadia. Arkadische Träumerei. Sigmund Lipinsky e gli ultimi tedeschi-romani”, costituisce un’aggiunta importante agli studi più recenti sul rapporto tra l’Accademia e il tardo Simbolismo, e documenta in modo consistente l’opera di Lipinsky attraverso centoquindici opere, in prevalenza disegni, e il suo rapporto con gli altri artisti tedeschi di cultura “secessionista”, Max Klinger, che è la figura più rilevante del “gruppo”, Otto Greiner, Karl Stauffer-Bern, Ernst M. Geyger, Willi Geyger, Hans Thoma, Albert Weiti, ed altri.
Si tratta di un gruppo di “tedeschi romani”, attivi a Roma e non solo, dal primo decennio del Novecento quasi fino agli anni Trenta: Lipinsky soggiornò a Villa Strohl-Fern, luogo simbolico deputato di molti pittori non solo tedeschi, dal 1902 al 1904. Si è cercato di indicare questi pittori secondo la definizione di “tedeschi-romani”, ma in effetti gli artisti sopra elencati, presenti in mostra, sono una tarda epitome della cultura originaria dei “Deutsch- Römer”, pittori e scultori che dal 1850 al 1900, soggiornando in Italia svilupparono, seppure in modo composito, quella sorta di sintesi tra un linguaggio accademico-simbolista e gli “avvisi” di rottura della Secessione, che nel decennio successivo fu uno degli eventi che condussero alle Avanguardie.
Tra i primi Deutsch- Römer si trovavano artisti di grande levatura come Arnold Böcklin, che soggiornò in Italia dal 1850 al 1857, poi dal 1862, e infine a Villa Bellagio, presso Fiesole, dal 1893 al 1895, e ivi moriva, nel 1901; lo scultore Adolf von Hildebrand, anch’egli presente a Firenze dal 1874, ove si era stabilito nel vecchio convento di San Francesco di Paola, alle pendici di Bellosguardo, autore di un libro, Das Problem der Form (1893), fondamentale per la elaborazione della Teoria della Pura Visibilità, da parte di Conrad Fiedler; Anselm Feuerbach, a Roma fino al 1873 e morto a Venezia nel 1880 all’età di cinquantuno anni; Max Klinger, le cui serie di incisioni avranno una importanza decisiva per la formazione del Surrealismo, in particolare per Max Ernst, pari a quella di Böcklin per De Chirico e la Metafisica; Hans von Marées, affrescatore insieme a Hildebrand della Sala della Stazione Zoologica di Napoli (1873), importante per la formazione di molta pittura figurativa del Novecento (si veda I “Deutsch- Römer”. Il mito dell’Italia negli artisti tedeschi 1850-1900, a cura di Christoph Heilmann, Roma, Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, 22 aprile-29 maggio 1988, Mondadori – De Luca, Roma 1988).
Ora va detto subito che chi cercasse negli “ultimi tedeschi-romani”, così li definisce il titolo della mostra, la forza estetica e culturale dei precedenti “Deutsch- Römer”, farebbe un torto ai secondi, per una sinossi impossibile a livello estetico e critico, e ai primi perché apparirebbero quali semplici seguaci. In realtà gli ultimi tedeschi-romani sono separati e non assimilabili ai primi “Deutsch- Römer”, prima ancora che dalla qualità e rilevanza estetica per il contesto culturale in cui le due vicende artistiche si svolsero. Nell’introduzione al catalogo della mostra romana del 1988 i due curatori, H.F. von Sonnenburg e C. Heilmann indicarono quale era il vero problema della definizione critica dei primi “Deutsch- Römer”: «Che l’arte moderna abbia un’origine duplice e contraddittoria, provenga cioè dall’illuminismo e insieme dal romanticismo, e non sia una filiazione del solo illuminismo come si è tradizionalmente creduto, è un fatto noto. Illuminismo e romanticismo hanno dato l’impronta anche ad alcuni tratti fondamentali dell’arte dei tedeschi- romani, vanno anzi considerati le loro antiche radici» (op.cit. p. XIX).
Ebbene lo stesso interrogativo dovrà esser posto per una valutazione critica dell’opera degli “ultimi tedeschi romani”: sono stati questi artisti con Lipinsky in testa, l’esito finale della grande cultura tedesca del Simbolismo declinato alla Böcklin e von Marées, o sono piuttosto i frutti di una contaminazione della vena ancora accademica, e quindi sostanzialmente anti simbolista di una certa Secessione?
Non ho dubbi a propendere per la seconda indicazione: gli ultimi tedeschi-romani, rispetto ai loro predecessori, sono un arretramento alle forme di nuovo imperanti dell’Accademia a partire dall’ultimo decennio dell’Ottocento, e quindi sostanzialmente estranei al nuovo corso dell’arte moderna e alle Avanguardie storiche. E qui si aprirebbe il discorso sulle diverse interpretazioni del Simbolismo, non tanto come definizione di stile quanto come valutazione del suo carattere storico e dei confini geografico-culturali del fenomeno.
In quel libro innovatore della critica sul Simbolismo in letteratura, che è stato Axel’s Castle. A study in the Imaginative Literature of 1870-1930, apparso nel 1931, il critico americano metteva in guardia contro le facili generalizzazioni delle definizioni come Simbolismo e Naturalismo e della loro opposizione come carattere di base della cultura del secondo Ottocento. Pochi anni dopo, nel 1942, i saggi illuminanti di Mario Praz, in quel fondamentale libro sul decadentismo che rimane La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, stabiliva una vasta circolarità tra arte, letteratura e musica esistente tra le tre principali aree culturali del Simbolismo, la Francia, l’Austria-Germania e l’Inghilterra: sostanzialmente la stagione del Simbolismo in Italia rimase marginale alle tre precedenti.
Quello che rimane certo è che il Simbolismo è nato in Francia prima che negli altri paesi e che la sua data di nascita veniva annunciata da un articolo di Jean Moréas, Le Symbolisme, apparso il 18 settembre 1886 su “Le Figaro”, divenendo il manifesto del movimento, solo dopo che l’Impressionismo aveva profondamente modificato tutta la cultura artistica europea.
A Moréas si deve non solo l’invenzione del nome Simbolismo, ma anche l’indicazione fondamentale della sua origine in una delle poesie dei Fleur du Mal (1861) di Charles Baudelaire, Correspondances: «La Nature est un temple où de vivants pilièrs / Laissent parfois sortir de confuses paroles / L’homme y passe à travers des forêts de symboles». Ed è proprio in Francia che il Simbolismo produsse i suoi più alti frutti, e vale ricordare solo i maggiori: in pittura Gustave Moreau, Odilon Redon, Puvis De Chavannes, estendendo i suoi forti echi anche in figure fondamentali della pittura moderna come Paul Gauguin; in letteratura alcuni giganti come Stéphane Mallarmé e Gustave Flaubert (Salammbo e Tentazioni di Sant’Antonio); in musica Claude Debussy che, dopo aver musicato L’après-midi d’un faune di Mallarmé, renderà un altro capolavoro nel 1901, alla fine del Simbolismo storico, con l’opera Pelléas et Mélisande (1901), da un testo di Maurice Maeterlinck del 1892.
Se ci spostiamo in Inghilterra, qui la definizione di Simbolismo assume un profilo diverso: simbolisti vengono considerati i pittori Preraffaelliti, una confraternita costituita nel 1848, con connotazioni ben diverse.
Nel resto d’Europa il Simbolismo ebbe poi degli esiti altissimi sia in Austria, con Gustav Klimt, che in Germania con Max Klinger e in modo minore Franz Von Stuck, ed in Svizzera con Böcklin e Ferdinand Hodler, o in Belgio con pittori come Ferdinand Khnopff. Sarebbe dunque più opportuno parlare di Simbolismi al plurale, piuttosto che di Simbolismo.
A questo punto vale la pena chiedersi: si può associare gli “ultimi tedeschi-romani” all’area della cultura del Simbolismo a cui di fatto culturalmente appartennero i primi “Deutsch- Römer”, come Böcklin e von Marées, o piuttosto gli “ultimi tedeschi-romani” appartennero invece a quella cultura del riflesso Neo-accademico che coinvolse gran parte della pittura della Secessione? Nel saggio introduttivo, che si distingue per la compiutezza di analisi, Emanuele Bardazzi scrive, a proposito della scelta “mediterranea” di questi pittori, che lo «scenario denso di fascino misterioso», questa «natura primordiale e intatta della campagna romana e delle coste tirreniche» rievocano «come in un sogno nostalgico e struggente molto in sintonia col sentimento della Sehnsucth, la malattia del doloroso biancore tipica dello spirito romantico tedesco». Da qui ne conseguirebbe una «vocazione» pittorica ispirata al neoidealismo immolata «sull’altare della bellezza eterna», postulata da Anselm Feuerbach, «in dichiarata controtendenza rispetto alla pittura del loro tempo, sia quella accademica di tipo convenzionale e storicistico, che quella realistica legata al presente» (cat. cit., p. 31).
Francamente questo ora non pare, e invece mi sembra che Lipinsky sia stato molto legato alla tradizione accademica di fine Ottocento: come non vedere poi in opere come Inter arma silent Musae (1922) e Ragazze nude sulla spiaggia (1912-1913, cat. nn. 29, 53), gli echi tardi di opere di Alma Tadema (1836-1912), olandese e tardo-vittoriano, che con il Simbolismo, quello vero, hanno poco a che vedere, e magari sembrano piuttosto equivalenti grafici delle composizioni di nudi di giovani carusi in atteggiamenti pompier, più che arcadici, del fotografo Wilhelm von Gloeden a Taormina agli inizi del Novecento. Non tanto sogni di Arcadia, di quell’Arcadia bramata da Wolfgang Goethe, più italica che greca, nella Canzone di Mignon, la terra ove «fiorisce il mirto e l’alloro», e neppure quella mitica dei Sonetti di Orfeo (1922), di Rainer Maria Rilke, quanto invece un Arcadia già da teatro dell’operetta.
Senza dubbio Lipinsky fu un grande disegnatore, come lo furono in Italia altri artisti della Secessione, in specie Giulio Aristide Sartorio (1960-1932), i cui disegni e bozzetti preparatori del grande fregio della Camera dei deputati (1900-1911) sono dei capolavori dell’inizio del Novecento; culturalmente la sua opera va contestualizzata più alla pittura figurativa accademica post-Secessione (Monaco 1892 – Berlino 1898 – Vienna 1897), che non a quella dei primi “Deutsch- Römer”.
Questa riflessione critica non toglie però nulla alla qualità e al catalogo di una mostra importante che ha il merito di aprire un discorso sul Post-Simbolismo.
Data recensione: 01/01/2025
Testata Giornalistica: Il Portolano
Autore: Marco Fagioli