Gli uomini hanno conosciuto l’albero del fico grazie agli dèi. I miti non lasciano dubbi. Gea, nata dal Caos originario, per prima...
Un volume esegue i «raggi x» alla pianta che vanta
ascendenze mitologiche e che trova impiego nella realtà mediterranea per la sua
facilità di coltivazione e la bontà, copiosità e purtoppo fragilità dei suoi
dolcissimi frutti
Gli uomini hanno conosciuto l’albero del fico grazie agli dèi. I miti non
lasciano dubbi. Gea, nata dal Caos originario, per prima ne aveva fatto dono al
titano, Sicheo, perché si proteggesse dal furore di Zeus. In seguito, Demetra,
ritrovata la figlia Kore rapita da Ade, l’avrebbe regalato a Fitalo che l’aveva
ospitata durante la sua furente ricerca. Nella Genesi, Eva e Adamo dopo aver mangiato
il frutto proibito si accorsero di essere nudi e per coprirsi «intrecciarono
foglie di fico e ne fecero cinture». Un fico selvatico (un caprifico) è anche
all’origine della fondazione di Roma che inizia quando il cesto che lungo il
Tevere trasportava Romolo e Remo si arena contro il suo legno disordinato. I
secoli e la storia (a 12.000 anni fa risalgono i primi resti riferibili a un
uso umano) lo confermeranno dono degno degli dèi per il piacere e l’utilità dei
frutti, freschi o secchi e quindi facili da conservare e trasportare.
Il fico vive nelle fessure dei muri e delle rocce, in luoghi assolati e poco fertili,
ma quelli che meglio lo accolgono sono i piccoli appezzamenti chiusi e
irregolari del giardino mediterraneo. Di un dono che si rinnova ogni anno
bisognerebbe ringraziare anche gli agricoltori che lo hanno addomesticato: per
l’energia zuccherina che si rivela alla sola vista dei frutti, verdi, purpurei
quasi neri (come nel cestino della pittura parietale di una villa di Oplontis,
poggiati uno accanto all’altro con ordine perché non si danneggino), per il
profumo intenso che si avverte a distanza nelle ore più calde dell’estate o per
l’ombra nera della chioma sotto la quale proteggersi.
La ricompensa di Demetra aggiunge all’aratro, ai semi di grano e alle istruzioni
per insegnare l’agricoltura donati al mandriano Trittolemo, il valore immenso
di un generoso albero da frutto. La dea concede, finalmente anche agli uomini,
il permesso di effettuare una pratica che, a conferma del sacro rapporto che
legava la fertilità dei frutti della terra a quella divina, era esclusiva delle
donne e consisteva nell’appendere al fico coltivato i frutti del selvatico. È
la primordiale tecnica della caprificazione: da essi una minuscola vespa
fuoriesce e feconda i fiori dell’albero domestico chiusi in un ricettacolo che
non è ancora frutto.
Il foro di ingresso, evidente alla base del frutto e gocciolante un succo dolce
a maturazione, rivela la simbolica carnale sessualità. Per dire di essa
insostituibile è D.H. Lawrence: «frutto del mistero femminile … Gli italiani
chiamano volgarmente così la parte femminile. La fessura, la yoni. La
meravigliosa umida conduttività verso il centro».
L’albero è emblema dell’agricoltura mediterranea, generoso anche dove le
condizioni ambientali sono avverse a una regolare produttività; è pianta facile
da coltivare (e per questo tra le prime a esserlo) e merita le dovute attenzioni.
Con una manciata di fichi secchi si attraversano deserti e mari e nel Vecchio Testamento
(Luca) la sua coltivazione è testimonianza di tenacia e auspicio di
conversione: da tre anni l’albero non produce ma il contadino chiede al padrone
della vigna: «lascialo ancora quest’anno, finché io gli zappi attorno e vi
metta il concime e vedremo se porterà frutto per l’avvenire; se no, lo
taglierai».
Suscita entusiasmi irrefrenabili in chi, per limiti climatici, non conosce i
frutti maturi. Plinio racconta di Elicone che ritornato nelle Alpi svizzere, da
cui proveniva prima di traferirsi a Roma a fare il fabbro, portò con sé dei fichi
secchi, uva, olio e vino e si dice che questa fu la causa della discesa in Italia
dei Galli. Anticipava l’irrefrenabile entusiasmo dei turisti tedeschi di cui,
nel 1873, una guida del Garda si prendeva gioco: «Non è l’aria temperata, non
le acque azzurre, non la vite, non i lauri e nemmanco il limone in fiore; nulla
di tutto ciò: è il fico fresco! Feigen! Feigen! gridano entusiasti i biondi
uomini, le bionde donne ed i biondi bimbi all’aspetto del mai veduto fico
fresco!». Fuggiva Ingeborg Bachman: «Via la neve dalla città speziata! /La
brezza dei frutti attraversi le strade. / Spargete uva passa, / portate i
fichi, i capperi! Vivificate l’estate…».
Produce più volte nel corso dell’anno: i fioroni già a fine maggio e poi tra
luglio e settembre e anche a ottobre e oltre nelle varietà tardive. Agli occhi indifferenti
della grande distribuzione ortofrutticola ha però un difetto che ne impedisce
il pieno successo ma che lo mantiene eccellente pianta per orti e mercati
domestici: i frutti si conservano per pochi giorni e quando si raccolgono in
anticipo perché durino più a lungo ne va a detrimento la qualità. Chi cerca di
farne una coltura intensiva prova ad aumentarne la conservabilità, quella
chiamata shelf-life cioè, molto prosaicamente, “vita sullo scaffale”. In questa
direzione non sono però stati fatti molti passi avanti da quella volta della
terza guerra punica, quando Cartagine «fu distrutta per le argomentazioni fornite
da un solo frutto». Un fico che Catone mostrò ai senatori chiedendo loro:
«quando pensate che questo frutto sia stato colto dall’albero? … ebbene
sappiate che è stato colto tre giorni fa a Cartagine. Tanto vicino alle mura
abbiamo il nemico!».
Un libro (I fichi a raggi X) si
sofferma sul successo agronomico, letterario e pittorico. Albero generoso,
forniva cibo ai pellegrini e agli infermi e, a dimostrare che tale rimane, è il
fatto che i proventi del libro vanno all’associazione “Noi per Voi, genitori
contro il cancro infantile”.
Data recensione: 08/09/2024
Testata Giornalistica: Il Sole 24 Ore
Autore: Giuseppe Barbera