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Nella Firenze dei primi anni Sessanta, in cui il passaggio in un laboratorio di analisi era associato alla vista di sbiadite...

Nella Firenze dei primi anni Sessanta, in cui il passaggio in un laboratorio di analisi era associato alla vista di sbiadite mattonelle bianchicce, l’apertura in piazza Indipendenza dell’Istituto Fanfani (che adesso passa al gruppo Agnelli-Elkann) rappresentò una novità quasi traumatica.
La bella boiserie della grande hall, i vasi di fiori, i dipinti d’autore appesi alle pareti per alleviare le attese, le hostess sorridenti con le divise disegnate da stilisti di grido e le impeccabili pettinature un po’ alla Doris Day, facevano dell’Istituto un’innovazione incredibile in una città da poco uscita dagli anni difficili della Ricostruzione.
In realtà, non era quello il primo laboratorio d’analisi aperto dal professor Manfredo Fanfani. Già dieci anni prima, nel 1954, questo pioniere della sanità privata aveva aperto uno studio in via della Pergola, nel cui allestimento e nella cui organizzazione aveva cercato di mettere in pratica le sue convinzioni sulla necessità di umanizzare il rapporto fra paziente e medicina, convinzioni su cui aveva influito anche una sofferta esperienza adolescenziale.
Figlio di un capostazione, come un altro grande fiorentino del Novecento, Mario Luzi, aveva conosciuto quindicenne il trauma di un’osteomielite che, costringendolo a una lunga degenza, gli aveva fatto avvertire quanto fosse deprimente per un malato l’algido ambiente delle corsie, con i letti d’acciaio e l’odore dell’alcol. Di qui il sogno di realizzare una struttura che infondesse serenità in persone costrette ad affrontare analisi da cui sarebbero potuti uscire verdetti decisivi per la loro vita.
Il passaggio dall’angusta via della Pergola all’ariosa piazza dell’Indipendenza, gravida di memorie risorgimentali, segnò l’occasione per una piccola rivoluzione. E infatti — come ha documentato Alessandra Maria Abramo nel bel volume Manfredo Fanfani Il Professore, edito da Polistampa — l’Istituto è stato qualcosa di più di un laboratorio d’analisi all’avanguardia per i tempi. Ha rappresentato il modello di una sanità che pone al centro il paziente, un tentativo — riuscito — di coniugare efficienza tecnologica e ricerca estetica, scienza e umanesimo.
Pur essendo prima di tutto un medico, Fanfani aveva uno spirito imprenditoriale, corroborato da alcune idee forti che aiutano a comprenderne il successo. Era convinto, per esempio, che, come nel diritto e nella vita militare, la forma è anche sostanza ed era lui il primo a dare l’esempio con i suoi proverbiali doppiopetto. Un camice opaco, una divisa stazzonata, uno sguardo ingrugnito, costituivano per lui una colpa imperdonabile, preludio magari di gravi conseguenze in sede operativa. Quando doveva scegliere un dipendente, oltre che ai titoli di studio guardava al carattere e scartava senza rimorso chi tradiva una «impostazione negativistica di risentimento e di odio».
Quando nel clima pansindacalistico degli anni Settanta i dipendenti lo accusarono d’imporre una disciplina «quasi militare», Manfredo Fanfani — come hanno ricordato i figli Fabio e Stefania — si offese molto: ma proprio per quel «quasi».
Eppure quest’uomo rispettato ma forse non molto amato dai sindacati aveva stretto ottimi rapporti, oltre che col pioniere dei trapianti di cuore Christian Barnard e con artisti come Paolo Villaggio, Johnny Dorelli e Catherine Spaak, con esponenti di spicco della cultura politicamente impegnata, da Renato Guttuso, che gli fu presentato da Marta Marzotto, a Oriana Fallaci, che fece stampare per lui in esclusiva una copia di Insciallah nel 1990.
Fra loro c’era anche il regista Mario Monicelli, che quando girò a Firenze Amici miei gli chiese proprio il suo studio di piazza Indipendenza come location della paradossale e celeberrima scena in cui l’architetto Rambaldo Melandri chiede al professor Alfeo Sassaroli la mano di sua moglie Donatella.
Eppure, altra apparente contraddizione, questo pioniere della medicina computerizzata, che si recò in America per approfondire le nuove tecnologie, quando doveva scrivere preferiva prendere carta e penna; e dire che scrisse molto, fedele alla sua vocazione di medico umanista: eleganti e raffinate pubblicazioni, sulla gotta delle antiche famiglie nobiliari come i Medici, come sulla sanità nel Granducato di Toscana.
Manfredo Fanfani è morto il 9 febbraio 2020; ora quello che fu lo studio suo (e, per un giorno, anche della troupe di Mario Monicelli) passa in altre mani. Speriamo soltanto che i nuovi proprietari ne accolgano in toto l’eredità, come fece, con un po’ di sgomento, l’architetto Melandri quando il professor Sassaroli gli consegnò, insieme alla moglie, anche le figliolette, la governante tedesca e il famelico cane Birillo. Altrimenti i fiorentini potrebbero ricordarsi di un altro celebre episodio di Amici miei: quello degli schiaffi alla stazione.
Data recensione: 26/07/2024
Testata Giornalistica: Corriere fiorentino
Autore: Enrico Nistri