Scrivere l’autobiografia romanzata di un personaggio fa tendenza. Ma immedesimarsi totalmente in un’identità
La famiglia, gli studi, la fuga da casa, la prigione: un
libro di Bernardi Guardi ripercorre la vita del furibondo ragazzino che ha
inventato la poesia moderna
Scrivere l’autobiografia romanzata di un personaggio fa tendenza. Ma
immedesimarsi totalmente in un’identità altrui non è scelta consueta. Questa la
sensazione straordinaria che si percepisce leggendo “Io è un altro, il ragazzo
Rimbaud” (Mauro Pagliai editore) di Mario Bernardi Guardi, scrittore e giornalista
di appassionata trasgressione, autore fra l’altro di saggi su Borges, Nietzsche,
Junger, e sui “tic e tabù della sinistra radical chic”. Quella “è”, volutamente
accentata, non deriva da un refuso, anzi sottolinea il fine dell’autore, diventare
Arthur Rimbaud. E contemporaneamente evidenziare la capacità del giovane poeta,
morto a soli trentasette anni, di essere stato un “joker” terribile e sublime
in ogni evento che lo coinvolgesse, specie con il dolore di aver visto i
prussiani invadere la Francia, dopo la sconfitta di Sedan, inflitta dai
prussiani a Napoleone III.
Tuffarsi nella sua vita è come tornare studenti, riscoprire i “poeti
maledetti”, marchiati dallo scandalo e dal decadentismo che li aveva preceduti.
Infatti l’entrata in scena di Rimbaud, Verlaine e il loro “padre” Baudelaire
era una sfida alle consuetudini borghesi e alla letteratura puntellata da
regole polverose, sbadigli e noia. Ma Rimbaud non immaginava che lui sarebbe
andato ben oltre, regalando nel futuro idee a Henry Miller e Bukowski, forse
influenzando cantautori, rocker e rapper dei nostri giorni, personaggi fluidi
nella creatività. Ma banali e incolti, se confrontati al furibondo ragazzino
Arthur Rimbaud, inventore della poesia moderna, sregolato e a volte addirittura
rivoltante, ma anche dotato di una naturale eleganza che lui definiva “celtica”,
con quel ciuffo biondo da angelo perduto, istintivo replicante di un piccolo
Lucifero, tormentato e nello stesso tempo esaltato dalla sua anima, ma anche
dall’approvazione degli insegnanti, che gli attribuivano attestati di plauso e
corone di alloro per la sua bravura di studente con precoce intuito letterario.
Più di ogni altro contò il sodalizio con il professore di retorica Georges Izambard,
da lui chiamato Iz, che lo avrebbe sempre aiutato nei momenti più difficili,
anche in senso economico. E che lo fece uscire dalla prigione dove era stato
rinchiuso, vagabondo, dopo essere scappato di casa. Terribile, la sua
descrizione di quel luogo infernale, dove subì insulti, oscenità, violenze di
ogni tipo da parte di poliziotti e reclusi. E ti fa pensare che gran parte dell’umanità
non sia cambiata neppure oggi, nella sua crudeltà schifosa. «Io mi chiamo
Arthur Rimbaud», scrive Bernardi Guardi nell’incipit, «sono francese. Nato a
Charleville, alla frontiera con il Belgio, lungo le rive della Mosa. I miei
antenati erano celti, forti e fieri. Il presente non gli somiglia». E arriva
subito a parlare della madre, con disprezzo e amore, perché il padre, capitano,
aveva mollato la famiglia, e lei, Vitalie, avrebbe fatto crescere i figli, ma,severissima,non
scese mai al compromesso di regalare una carezza ad Arthur, lui ne avrebbe
sentito la mancanza per tutta la vita. Ecco come, con ironia sfacciata,
Rimbaud-Bernardi Guardi immagina l’incontro di mamma e papà: «lui, borgognone
di origine provenzale, ha tutta la ribalderia sessuale dei maschiacci mezzo
latini che sanno di esser tali e hanno voglia di allegre vendemmie. Mentre le
femminucce celtiche, soprattutto quelle seriose, spasimano di essere pigiate
nei tini ma guai a dirlo». E poi continua: «Sono Arthur! Forse con dentro il
cuore un pezzo della costellazione luminosa... sono Artù, il ragazzino che
estrae una spada dalla roccia.... Artù, biondo, magrolino e tutto nervi, che
tira fuori la spada e la roccia è morbida come il burro... Arthur, sei libero,
renditene conto! E io lo dico con proterva ostinazione. Nulla è facile, ed è
inutile che io faccia il reginetto della trasgressione...». Arriviamo all’opera
celeberrima, “Una stagione all’inferno”, e così scrive Rimbaud: «La poesia deve
ubriacare. Vaticina se è invasata, dunque parte alla ventura, perché è partita
di testa. E per un po’ non torna, perché quel turbinio è un gran bel vedere.
Allora diventa Sapienza».
Data recensione: 29/02/2024
Testata Giornalistica: Libero
Autore: Bruna Magi