Tra le molte forme di relazione che si danno tra una pianta, il suo fiore e un territorio, quella del giaggiolo, specialmente...
Tra le molte forme di relazione che si danno tra una pianta,
il suo fiore e un territorio, quella del giaggiolo, specialmente con la Toscana
della valle dell’Ema, di gran parte del Valdarno, del Chianti fiorentino e
della provincia di Arezzo, assume i tratti di una sorta di microstoria
rivelatrice. E questo ben al di là dell’esser stato assunto – Iris germanica, varietà
florentina o giaggiolo bianco – come emblema di Firenze fin dal Medioevo, o per
l’etimologia popolare – oltre quella dal latino gladiolus, piccola spada, per
la forma delle foglie – che in toscano lo vuole diacciolo, poi giaggiolo, per
il colore e la forma allungata del suo bocciolo, bianco azzurrato, come di ghiaccio.
Da impiegarsi in varie preparazioni mediche o cosmetiche, il rizoma di iris, specialmente
tra secondo Settecento e primo Novecento, viene coltivato qui pressoché in ogni
podere, in piccoli appezzamenti su superfici sassose dove cresce senza bisogno
di troppe cure, complemento alle colture principali, fino a ordinare il paesaggio,
costituendo un’integrazione significativa nell’economia contadina, una presenza
caratterizzante nel percorso di vite vissute, nelle sorti di territorio. Una
vera e propria epopea, come raccontano nella loro ricerca Andrea Bettarini e
Lucia Diodato: Il giaggiolo (Edizioni
Polistampa).
Già gli etruschi lo raffigurano sulle urne funerarie mentre Ippocrate e poi
Plinio ne derivano unguenti e rimedi. Passati poi dagli orti dei conventi alle
università, dove, oltre ai medicamenti, lo speziale appronta inchiostri e colori,
con i fiori di giaggiolo si prepara un verde denominato verdilis o verde iris.
Ma la sua radice si rivela soprattutto capace di mantenere a lungo l’aroma, ed
esaltare quello delle sostanze con le quali vien mischiato. Di un tale pregio profitterà
Renato Bianco, alchimista al seguito di Caterina dei Medici, regina di Francia
dal 1547, che diverrà maestro profumiere di corte, dove diffonderà la moda di fragranze
presto divenute segno di distinzione sociale.
Per l’epopea che qui interessa, è nella settecentesca Toscana granducale che la
coltivazione del giaggiolo s’impone come risorsa molto redditizia, anche in
valuta. Le richieste, alimentate specialmente dall’estero, viaggiano sull’onda
della moda di lusso per profumi e cosmetici.
È tuttavia l’invenzione di un prodotto alternativo ai suoi tradizionali
impieghi a costituire un ulteriore capitolo di questa microstoria: nel 1825 il
francese Pietro Rambaud avvia a Pontassieve una manifattura che impiega venti, poi
cinquanta operaie, con un salario per i tempi di tutto rispetto, per ricavare
dalla lavorazione al tornio del rizoma essiccato sfere di varie dimensioni
forate e colorate per farne collane, bracciali e rosari profumati destinati
alla vendita, specie in Oriente.
Novità, che assieme ad altre forme di conduzione, familiare, o cooperativa,
hanno l’effetto parallelo di rianimare un territorio e un’industria agraria in
difficoltà. Fino alle crisi di eccedenza del volger di primo Novecento,
complice il profilarsi della concorrenza sostitutiva dell’industria chimica.
Presenti secondo alterne fortune anche nei giardini, e sempre più dal Novecento,
con la creazione di migliaia di nuove varietà e ibridi, gli iris han da sempre intercettato
simbologie e immaginari. Fiore della primavera, come lo definisce l’agronomo
medievale Pier de’ Crescenzi, associato a Flora nella Primavera di Botticelli,
che lo ritrae secondo la lezione dei Fasti di Ovidio, come protagonista nei
quadri di Van Gogh. Ne scrive Corrado Govoni: «celesti giaggioli/ sono i fiori
più belli della terra, /vere orchidee dei poveri/ che nemmeno li guardano».
Ma, se si è a Firenze, questo è il momento di ammirarne le fioriture nel
Giardino dell’iris, orto botanico dedicato, dove dal 1954 si organizza un prestigioso
concorso internazionale per valutarne le migliori varietà.
Data recensione: 12/05/2024
Testata Giornalistica: Alias de «Il Manifesto»
Autore: Andrea Di Salvo