Quella di Harold Adrian Russell Philby, soprannominato Kim dal padre in onore di Kipling e di uno dei suoi più celebri romanzi
Quella di Harold Adrian Russell Philby, soprannominato Kim
dal padre in onore di Kipling e di uno dei suoi più celebri romanzi, è la
storia di una spia d’altri tempi; un aristocratico inglese, un agente segreto
al servizio di Sua Maestà che scelse di abbracciare il marxismo-leninismo.
Simpatizzante comunista sin dagli anni dell’università, a Cambridge, a un certo
punto della sua vita decise di oltrepassare la cortina di ferro fornendo
segreti all’Unione Sovietica. Morto a 76 anni nel 1988, quando il muro di
Berlino, crollato definitivamente nel novembre dell’89, cominciò a
scricchiolare seriamente sotto i colpi della glasnost e della perestrojka, è stato
una delle personalità più intriganti dello spionaggio mondiale che ha attraversato
buona parte del Novecento. Uno dei “Magnifici Cinque”, insieme a Burgess,
Maclean, Blunt e Cairncross, passati alla storia come il “circolo di Cambridge”:
intellettuali colti e animati da un grande spirito d’avventura, allevati negli
anni Trenta nel mito progressista del socialismo e da una forte attrazione per
la Russia staliniana al punto da decidere di trasmettere informazioni importanti
all’Urss durante la guerra o subito dopo.
Ma è leggendo l’appassionante e significativa intervista alla moglie Rufina
Ivanovna Puchova, la moglie russo-polacca scomparsa nel 2021 e che Kim aveva
sposato nel ’73, proposta in un testo dal giornalista e saggista Francesco
Bigazzi, ex responsabile dell’Ansa dal 1985 al 1991 e profondo conoscitore
della cultura e della storia russa, che emerge il vero ritratto di un uomo
disilluso il quale da tempo aveva abbandonato quelle maschere che
quotidianamente era stato costretto ad indossare e la cui incredibile vita è
stata fonte d’ispirazione per registi e scrittori. Meno di cento pagine che
rappresentano un vero e proprio memoriale e ridisegnano un’epoca di sospetti,
di fughe, quando il buio della Guerra fredda incombeva sull’Europa e sul mondo.
Tempi da spy-story narrate da John le Carré, di ambientazioni internazionali
relegate ormai nella memoria. Proprio come quella di Philby che la vedova ed
ultima consorte, alla quale probabilmente aveva confidato tutto, ha difeso con
coraggio fino all’ultimo. Quando, attaccato a una bottiglia di cognac,
attendeva la sua sorte. Chi era davvero Kim Philby? Soltanto uno 007
doppiogiochista? Un uomo che “credeva in una società giusta e nel comunismo –
ha raccontato Rufina – a cui ha dedicato tutta la sua vita. Noi l’abbiamo
deluso. Era scosso e turbato fino alle lacrime quando si domandava: ‘Perché gli
anziani vivono così male? Dopotutto, hanno vinto la guerra!’”.
Per ottenere una risposta, forse bisogna fare un salto indietro e tornare agli anni
Trenta. A quando il giovane Kim (era nato nel 1912 in India) lavorava come
informatore del Kgb da Londra. Missione che continuò a svolgere da corrispondente
del “Times”. Nel 1940 seguì da free-lance la guerra civile spagnola e alla
vigilia del conflitto mondiale entrò nell’MI6, l’agenzia di intelligence
britannica, bruciando le tappe di una carriera difficile ma appagante grazie
anche all’assegnazione di un ruolo delicato e importante: a lui venne affidato
il compito di responsabile delle analisi sul comunismo, sui servizi sovietici e
di agente di collegamento con gli statunitensi della Cia. Tutto ciò mentre
passava i segreti al Cremlino.
Fino a quando, il 23 gennaio del 1963, durante una visita a Beirut,
spacciandosi per corrispondente dei prestigiosi giornali “Economist” e “Observer”,
sparì e raggiunse Mosca che, pur trattandolo con rispetto, ne seguì ogni mossa
costringendolo a condurre un’esistenza isolata. Tormentata. Difficile e piena di
acuti conflitti personali. Tuttavia Philby fece perdere le sue tracce e passò
dall’altra parte anche per un altro motivo: capì di non avere più scampo quando
ricevette la visita del suo vecchio capo ed amico Nicholas Elliott, il quale
scoprì le carte facendogli comprendere che il gioco era finito per via delle
prove presentate dall’agente sovietico Anatoliy Golitsyn, fuggito due anni
prima in Occidente. A quel punto, non gli restò che abbandonare la moglie Eleanor
(insieme quel giorno dovevano andare a un party organizzato da Glen Balfour Paul,
primo segretario dell’ambasciata britannica, ma la signora Philby ci andò da
sola), lasciandole un biglietto per giustificare la sua improvvisa partenza e 2000
sterline, e contattare il Kgb per chiedere accoglienza. Del resto, non si
sentiva un traditore, ma una talpa fedele ai sovietici. E ricomparve sei mesi
dopo, a luglio, a Mosca. Dove resterà per venticinque anni, fino alla morte.
Quell’episodio, al di là della vicenda umana di Philby, rappresentò l’inizio di
una nuova era per i servizi segreti mondiali. Anzitutto, se per l’Europa c’era
qualcosa di cui vergognarsi, dal canto loro gli americani scoprirono un’amara
verità: i loro alleati inglesi erano infiltrati da agenti del Cremlino. E da allora
il Kgb fu ristrutturato anche grazie all’impegno e alla competenza dell’ex studente
di Cambridge. E adesso il libro di Bigazzi, che si divide in tre capitoli,
dalla “rabbia” iniziale all’intervista e all’importanza della figura di Rufina
fino all’appendice con le biografie e una parte de “Il terzo uomo” di Domenico
Vecchioni (pubblicato nel 2013 da Greco e Greco editore), riapre ferite storiche
mai rimarginate. Anche per chi oggi non c’è più e gli è stata accanto nel bene
e nel male, rivelando particolari della loro unione e descrivendolo come “un
individuo più familiare – spiega Bigazzi – per rispondere indirettamente alle
accuse più pesanti. La sua è una difesa accorata e sincera, che non si addentra
sul terreno insidioso dello spionaggio, ma si concentra principalmente sul tormento
interiore vissuto dall’uomo al suo fianco”. “Posso dire con certezza – afferma
nell’intervista la donna –, come lui stesso mi ha confidato più di una volta, che
nel suo mestiere la cosa più difficile era proprio dover vivere una doppia
vita. Altro che godimento, era una sofferenza. Conoscendolo come lo conoscevo
io – e io l’ho conosciuto meglio di tanti altri – lo potevo capire, era un uomo
di una sincerità e onestà uniche. Non avevo mai incontrato un uomo più onesto e
sincero di lui, non mi ha mai mentito, nemmeno per le piccolezze. Era molto puntiglioso.
Mi dispiace che spesso a parlare di lui siano persone che lo conoscevano a malapena
o non lo conoscevano affatto. Quante volte ho domandato a Kim: ‘Perché non ti
sbagli mai?’. ‘Molto semplice’, mi rispondeva, ‘io mi pronuncio soltanto sugli argomenti
che conosco a fondo’. Se aveva dubbi o incertezze, non si pronunciava. Diceva
anzi che lo ripugnava dover apparire come un uomo infallibile e perentorio. Ciò
che più lo faceva soffrire nella sua missione di agente era l’aver dovuto fare
il doppio gioco. Fingere, ingannare i colleghi”. Le sue informazioni date all’Urss
portarono alla morte di numerosi agenti britannici e di informatori sovietici.
E mentre a Londra è stato condannato ed indicato come un traditore, in Russia,
dove è sepolto, è considerato un eroe al punto che nel dicembre 2010 è stata
inaugurata una targa in suo onore dal capo del servizio segreto russo nel
quartier generale di Mosca. Chissà cosa ne avrebbe pensato Kim, personaggio
decisamente originale e controverso.
Data recensione: 04/11/2023
Testata Giornalistica: Conquiste del Lavoro
Autore: Fabio Ranucci