L’immagine del Rinascimento è profondamente cambiata negli ultimi decenni: il vecchio mito di un mondo armonico
Leon Battista Alberti. Le «Intercenales» sono un capolavoro
di umorismo del Rinascimento eppure rappresentano una delle riflessioni più
profonde e amare sulla condizione umana
L’immagine del Rinascimento è profondamente cambiata negli ultimi decenni: il
vecchio mito di un mondo armonico, sereno, si è definitivamente incrinato, e si
è imposta una nuova visione che sottolinea i caratteri drammatici, anche
tragici, di quell’epoca straordinaria.
Questo non vuol dire che non vi siano stati personaggi di prima grandezza che
hanno insistito sulla dignitas hominis,
sulla possibilità per l’uomo di farsi quasi deus,
ma oggi sarebbe difficile assumere, come è stato fatto per molti secoli, l’Oratio di Giovanni Pico della Mirandola
come il manifesto dell’umanesimo. Certo, la sua voce continua ad arrivare fino
a noi, ma è solo una fra molte altre che sottolineano in modo tenace i confini
della condizione umana, l’impossibilità di uscire dal proprio limite, il
carattere dell’uomo come piccolo «uccello di rapina», in grado di incidere sul
proprio tempo solo quando ci sia un riscontro tra la propria virtù e la
fortuna, cioè il tempo, che muta senza sosta, mentre la natura umana resta
ferma, statica.
Sono, queste, le posizioni di Machiavelli; ma quelle di Guicciardini sono perfino
più gravi e drammatiche. Al suo sguardo, totalmente disincantato, il mondo
appare privo di un significato visibile, senza alcuna traccia della presenza di
Dio. Nella Storia d’Italia, di fronte al sacco di Roma e alla violenza dei
lanzichenecchi sulle matrone romane, Guicciardini afferma che i «giudizi di
Dio» sono troppo misteriosi per essere compresi con gli strumenti umani. Tema,
questo, presente anche nei Ricordi, ma esso attraversa tutta la sua meditazione
sulla condizione umana osservata con un giudizio nel quale vibra una nota che si
potrebbe definire di tipo nichilistico. Guicciardini pensa, e non è il solo, di
vivere in un’età del caos, disordinata, in cui tutti i princìpi del vecchio mondo
sono incrinati e prossimi a finire. Il che non vuole dire che l’uomo non debba
battersi contro il potere della Fortuna, della «necessità» che incombe sul
destino umano.
Ma una visione drammatica della condizione umana, per quanto intrisa di sarcasmo
e di umorismo, era già presente in un protagonista dell’umanesimo, Leon
Battista Alberti, e attraverso la traduzione dei suoi Opuscoli morali, fra cui il Momus,
pubblicata a Venezia nel 1568, si era imposta in Europa presso autori di prima
grandezza. È difficile, infatti, che Shakespeare delineando i tratti di Jago
non avesse presente appunto il Momus, cui lo avvicinano motivi tipici della
cultura umanistica a cominciare da quello, centrale, del simulare e del
dissimulare, oltre al grande tema, che aveva origine in Pindaro, dell’uomo
«ombra di sogno».
Anche l’immagine di Alberti è profondamente mutata negli ultimi decenni
rispetto alle antiche interpretazioni che hanno visto a lungo in lui il rappresentante
del Rinascimento tradizionalmente inteso. Né c’è dubbio che alla base di questa
nuova immagine ci sia stata la scoperta di «venticinque intercenali
sconosciute». Fu Eugenio Garin a individuarle, come ha raccontato lui stesso.
Garin pubblicò nel 1964 su «Rinascimento» le Intercenali ritrovate, ristampandole poi, l’anno successivo, in un
«Quaderno di “Rinascimento” », e le commentò in una serie di saggi raccolti poi
nel volume Rinascite e rivoluzioni.
Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo pubblicato nel 1975. Sono saggi
in cui elaborò un “ritratto” assai diverso dalle interpretazioni che egli
stesso aveva dato in scritti precedenti, e che è alle origini – insieme ai
lavori di Manfredo Tafuri – dell’immagine di Alberti che si è ormai affermata, distanziandosi
da antiche visioni sia di Alberti che del Rinascimento.
Di fatto, la scoperta di quelle venticinque Intercenali
ha contribuito ad aprire una nuova stagione degli studi sul Rinascimento,
che si distanzia nettamente dalla tradizione critica costruita in primo luogo
dalla grande storiografia illuministica di d’Alembert e Voltaire e ripresa e
sviluppata nell’Ottocento da Michelet e da Burckhardt. Quella lunga tradizione,
che aveva le sue radici nella storiografia del Rinascimento, a sua volta perno
centrale dell’autobiografia degli intellettuali europei moderni, è entrata in
crisi anche grazie a quella scoperta, fino a configurarsi per quello che essa
era: un capitolo di alta riflessione storiografica trasformatasi, poi, in un
evento di carattere propriamente storico rovesciando il rapporto tra storia e
storiografia. Quella scoperta ha contribuito a ristabilire la distanza fra
storia e storiografia, senza più considerare, come si è fatto a lungo, realtà
storica ciò che era invece una peculiare, e fortunata, valutazione di tipo
storiografico.
È dunque molto importante che in questi ultimi decenni siano state approntate varie
traduzioni e nuove edizioni delle Intercenali
albertiane, che hanno il merito di mettere in circolazione un tesoro così
importante.
Nell’ambito delle edizioni, è da segnalare ora la editio minor delle Intercenales
a cura di Roberto Cardini, che oltre al testo critico presenta anche la traduzione
di Maria Letizia Bracciali Magnini. Editio
minor perché essa «riproduce, ma ulteriormente rivisto, il testo critico
dell’editio maior», cioè del testo delle
Opere latine di Alberti uscite nel
2010. Iniziativa assai utile per gli studiosi interessati a un autore così
importante e a testi così suggestivi.
Come dice giustamente Cardini, «a partire dalle Intercenales fino al Momus,
i suoi scritti comici non sono, per l’Alberti, vacanza e evasione dalla morte, non
sono roba da carnevale, e neppure sono un “rilassamento”, una “distensione fisica
e psichica”: sono una terapia e un’autoterapia, ma anzitutto sono conoscenza,
sono un “genus quoddam philosophandi”».
Sono una delle riflessioni più profonde e più amare sulla condizione umana,
fino, si è detto, a Shakespeare, che riprende nelle sue tragedie temi
tipicamente albertiani – dalle Intercenali
fino, soprattutto, al Momus.
Si potrebbe osservare che Alberti non è un “filosofo”, e che i suoi interessi sono
di natura diversa. Non per nulla nella sua figura, per la complessità e la varietà
degli interessi, si è visto a lungo l’uomo tipico del Rinascimento. Ma non
esiste un concetto unico della filosofia che attraversi, indifferente, tutte le
epoche. È vero il contrario: se l’oggetto della filosofia è in primo luogo
l’analisi della condizione umana, essa si sviluppa in modi differenti in
diversi contesti. E si connette, volta per volta, a discipline che in ogni
epoca sono al centro della riflessione sul destino dell’uomo. Questo vale,
naturalmente, anche per Alberti.
Data recensione: 26/02/2023
Testata Giornalistica: Il Sole 24 Ore
Autore: Michele Ciliberto