Senza dubbio Riccardo Nencini, scrittore prestato alla politica, predilige i personaggi dalla schiena dritta
Senza dubbio Riccardo Nencini, scrittore prestato alla
politica, predilige i personaggi dalla schiena dritta. Come Oriana Fallaci,
della quale ha condiviso gli ultimi momenti, vissuti con orgoglio e coraggio,
con un’intensa testimonianza (Morirò in piedi),
pubblicata da Polistampa e salutata da meritato plauso. O come Giacomo Matteotti,
alla cui eroica figura ha dedicato pagine palpitanti, sino alla tragica e barbara
fine, in un libro di grande successo (Solo)
edito da Mondadori. Alla propria galleria – cui appartiene di diritto anche lo
zio Gastone, campione di ciclismo, trionfatore del Giro d’Italia e del Tour de
France – il nostro autore aggiunge ora – taciutesi le fanfare del
settecentenario – nientemeno che Dante Alighieri. Il “ghibellin fuggiasco”,
seguito nei primi anni del suo esilio, si trasforma sotto la penna eclettica di
Nencini in testimone di suggestive visioni del Mugello, terra d’origine del
nostro prolifico scrittore, che al suo Vaterland
ha dedicato, ancora per i tipi di Polistampa, un libro che nel titolo dice
tutto: La bellezza.
Se – in obbedienza alle norme non scritte delle recensioni – dovessimo
individuare un genere letterario per agevolare il lettore nell’approcciarsi
all’agile volumetto in esame, dovremmo rifarci a quanto scrive lo storico
Franco Cardini nella quarta di copertina. «Non è un libro di storia», afferma
il medievista: ma non vuol essere una critica, al contrario. Aggiunge infatti
Cardini che si tratta di «un atto di amore per queste terre». E in effetti,
diciamolo subito, dello storico tradizionale Nencini – per quanto
documentatissimo – non ha e non vuole avere l’ossessiva acribia né l’eccesso di
circospezione che sovente mortifica l’intuizione del vero, o almeno del
verosimile: anzi, con l’immaginazione innestata sul ragionamento prova a colmare
le tante lacune nella biografia dell’Alighieri con supposizioni utili al
proprio intento, ovvero – come detto – prendere le mosse dalle vicende
dantesche per dipingere le terre a lui care con ardimentose pennellate. Così,
volendo indicare un genere per il nostro volumetto, dovremmo definirlo historical fiction (filone cui, tanto
per fare un esempio illustre, appartiene Marguerite Yourcenar): o meglio –
scimmiottando il cinematografico docudrama
– un historical drama,
intrecciato al libro di viaggio di un profondo conoscitore innamorato dei
luoghi.
Accompagniamo dunque Dante ramingo dopo il bando da Firenze. Il cammino dell’Alighieri,
sporadicamente documentato, diviene un itinerario fantastico, ma non troppo,
attraverso le terre a cavallo del crinale appenninico, toccando località dove la
storia ha inciso pagine indelebili e celebri personaggi hanno lasciato traccia
del proprio passaggio. L’autore padroneggia la tecnica del flashback. Il primo
è relativo al possibile soggiorno di Dante a Bologna, dove l’Alighieri,
denominato da Nencini «studente fuori sede», avrebbe frequentato attorno al
1287 il più antico Studio d’Italia. In realtà lo spunto serve per parlarci dei
passi montani dell’Osteria Bruciata e della Vecchia e soprattutto dei campi
presso Pietramala e il passo della Raticosa, dove le emissioni di metano
accendono vampe che nottetempo potrebbero aver ispirato al poeta le fiamme
dell’Inferno. Il secondo flashback ci conduce a Campaldino e alla battaglia
dell’11 giugno 1289 cui Dante prese parte tra i feditori fiorentini, come lui
stesso, a quanto pare, avrebbe accreditato in una perduta epistola menzionata
da Leonardo Bruni, per parlarci del passo della Consuma verso il Casentino e
dintorni. La presenza nell’oste fiorentina di Vieri dei Cerchi e Corso Donati, futuri
capi delle fazioni nemiche dei guelfi bianchi e neri, introduce una digressione
verso Acone, località definita da Nencini «una fetta di Mugello protesa nella
Val di Sieve» presso il Monte Giovi, luogo d’origine dei Cerchi (il
summenzionato Vieri vi nacque), “gente nova” inurbatasi da pochi anni, e legato
peraltro anche ai Donati, famiglia di antica stirpe cittadina, titolari del
giuspatronato sulla chiesa di Acone come su altre della Val di Sieve.
Ed eccoci all’8 giugno 1302 e alla celebre adunata nella pieve di San Godenzo cui
Dante partecipò con altri diciassette fiorentini, tra i quali lo sbandito Vieri
de’ Cerchi con altri due della sua consorteria, in rappresentanza dei guelfi
bianchi, e quattro ghibellini degli Uberti, della schiatta del magnanimo
Farinata, per stringere e garantire la Lega antifiorentina con gli Ubaldini,
potenti feudatari, e i comuni di Bologna, Pistoia, Forlì, Faenza, Imola,
Cesena, Bagnacavallo e Cervia, nonché i da Polenta signori di Ravenna.
L’inquadratura si sposta sul castello di Montaccianico, baluardo e vanto degli
Ubaldini, diruto da Firenze nel 1306, dove all’indomani dell’incontro di San
Godenzo Nencini colloca un soggiorno di Dante, peraltro non documentato, in
virtù di una “deduzione”. Argomenta infatti: poiché è verosimile che Vieri de’
Cerchi, dopo l’adunata, abbia trovato riparo entro le possenti mura di Montaccianico,
perché mai Dante non avrebbe dovuto accompagnarlo nella piazzaforte ubaldinesca?
Anzi, seguirlo «nell’esilio, probabilmente fino alla rovinosa sconfitta della
Lastra» il 20 luglio del 1304 (anche se è arduo dimostrare che l’Alighieri fosse
presente allo scontro tra fuorusciti e fiorentini: molti sono gli studiosi, tra
cui il Piattoli, che ritengono che Dante avesse abbandonato la compagnia dei
Bianchi ben prima, salendo in Veneto, ipotesi a sostegno della quale vi sono
fra l’altro i suoi reiterati tentativi di rientrare a Firenze in nome della sua
moderazione e della sua statura di letterato). Bene, anche se non vi sono prove
che Dante fosse proprio a Montaccianico nell’agosto del 1302, siamo d’accordo
con Nencini che sia bello pensarlo nel castello, a rimirare dall’alto delle
mura la sottostante foresta, che potrebbe avergli ispirato la selva del I e II
canto della Commedia.
Passiamo poi al 1303, con la sfortunata spedizione contro Firenze di Scarpetta degli
Ordelaffi di Forlì (presso il quale Dante sarà in quell’anno, come testimonia l’umanista
forlivese Flavio Biondo, dirigendosi poi verosimilmente a Verona), sconfitto dal
crudele podestà fiorentino Fulcieri da Calboli presso Pulicciano. Segue una digressione
per parlarci del Falterona e quindi, tramite la figura di Maghinardo Pagani,
messo da Dante tra i consiglieri fraudolenti, alludere alle “valli del Lamone, del
Senio e del Santerno”. Non manca un’allusione saporita al caratterino di Dante,
che com’è noto si è spesso vendicato nei suoi scritti dei torti subiti. Così,
accenna Nencini, citando la diceria dell’ospitalità rifiutata a Dante dagli
Alberti di Mangona, l’Alighieri si vendica cacciando all’inferno gli esponenti
più in vista della famiglia (i fratelli Napoleone e Alessandro fra i traditori
dei parenti, Orso figlio di Napoleone nell’Antipurgatorio), straziata da una
faida fratricida. Per dire la verità, l’accanimento di Dante pare sorprendere
persino il nostro autore, che si domanda perché mai l’Alighieri, dopo aver
condannato alle pene infernali anche diversi esponenti della sua casata,
avrebbe ficcato nel Purgatorio anche l’innocente Ugolino d’Azzo degli Ubaldini.
Ma può stare tranquillo, Dante non è così ingiusto: in effetti il povero Ugolino
non è spedito a espiare in Purgatorio, ma solo citato da Guido del Duca (XIV,
105), al contrario, tra i romagnoli dell’età cortese e cavalleresca.
L’itinerario si conclude presso Vicchio, accennando alla contemporaneità di
Dante e Giotto, due geni che rimandano entrambi al Mugello (ancorché Nencini
abbia da opinare sulla nascita del pittore a Vicchio, ritenendolo possibilmente
fiorentino) e che probabilmente s’incontrarono a Padova.
Un altro aspetto rilevante del libro, o meglio dei libri di Nencini, è lo stile
originale e riconoscibilissimo, che si vale di brillanti accorgimenti per
tenere desta l’attenzione del lettore. Anzi, potremmo dire, con la sua prosa
rovente, “declamata”, talvolta quasi “gridata”, Nencini il lettore lo prende di
petto. Guai a distrarsi anche un attimo e, peggio che mai, a sonnecchiare! Non
appena accenna a calarti la palpebra, immediatamente il nostro ti sferza
implacabile con un artifizio lessicale o sintattico, forte dell’asimmetria fra
l’autore che “sa” e il lettore che invece “non sa”, o ne sa meno, o non sa cosa
aspettarsi. Così, invece dell’argomentare anodino e un po’ soporifero di certi
storici, ci troviamo con piacere dinanzi a una sorta di moderno cantastorie che
illustra i quadri del suo colorito tabellone: e pare di udire la voce di un
antico narratore che “sul canto del fòco” ci guida nella bellezza del suo
Mugello e ci fa rivivere come fossero presenti vicende lontanissime nel tempo.
Data recensione: 01/04/2022
Testata Giornalistica: Nuova Antologia
Autore: Bruno Piazzesi