Con centoventi opere quella in corso a Vercelli è la più vasta retrospettiva dedicata a Francesco Messina. Curata da Marta Concina
Con
centoventi opere quella in corso a Vercelli è la più vasta
retrospettiva dedicata a Francesco Messina. Curata da Marta Concina,
Daniele De Luca e Sandro Parmiggiani, la mostra si articola in tre
sedi, ossia Arca, la pinacoteca del Palazzo Arcivescovile, dove è
collocata la produzione sacra, e la chiesa sconsacrata di San Vittore
– una installazione su scala urbana poiché le due grandi sculture,
il gruppo di “Adamo ed Eva” sul sagrato e la ballerina di
“Summertime” all’interno, sono visibili per tutta la giornata e
buona parte della notte direttamente dal corso.
Una
mostra di queste dimensioni obbliga a porsi la domanda su quale sia
il posto di Messina nel Novecento. Lo scultore ha avuto una carriera
lunghissima, dagli anni Venti fino alla morte nel 1995, ma dopo la
produzione degli anni ‘30-’40 – che la mostra conferma come il
vero apice qualitativo per freschezza e intensità – nel
dopoguerra, nonostante una continuità di apprezzamento in
particolare da parte della tradizione ormai interrotta dei
poeti-critici, il suo lavoro, complice anche una certa routine, non
si è più trovato in sintonia con un clima zavorrato da ideologie
estetiche e politiche. A differenza dei suoi coetanei Marini e Manzù
(mai usciti dai radar della critica) Messina ha scelto di percorrere
la strada del classico. Come scrive Parmiggiani nel catalogo
(Polistampa) è «la tradizione
del moderno», ossia il sentire «la tradizione classica,
rinascimentale e moderna» come «la lingua e la visione
che lui aveva riconosciuto come la propria patria e il proprio
destino, ai quali, dopo essevi approdato, sentiva di dovere ancorare
il cammino artistico di una vita». La mostra consente di verificare
puntualmente questo legame ma anche di metterlo a fuoco. Il suo
collocarsi in una tradizione non è affidarsi a un repertorio dotato
di una “auctoritas” sempre più traballante. Il rifarsi del
giovane Messina a un patrimonio ben selezionato, che fosse l’arcaico
italiano, la statuaria ellenistica, la ritrattistica del
Quattrocento, la lezione di Donatello, appare più il tentativo di
rivaleggiare con una storia di giganti.
Ma
il cuore forse non è qui. Lo scultore, scrive ancora Parmiggiani,
«non si è limitato a restituirci la buccia di qualcosa che voleva
rappresentare nella terza dimensione (…) ma si è costantemente
posto all’ascolto dei brividi
interiori di coloro di cui andava fissando i tratti nelle proprie
sculture». Questo appare particolarmente vero per una parte della
sua opera, certamente per la migliore. È l’energia nervosa che
vibra negli adolescenti o l’algido distacco della moglie Bianca. Ed
è ciò che fa di lui un ritrattista superbo, forse il migliore che
abbia avuto l’arte italiana del Novecento. Ma quando si accosta a
una produzione più di genere (le ballerine, i cavalli…), proprio
quella adesione alla verità interna viene meno e con lei la forza
della figura.
La
“anatomia della vita interiore”, per usare ancora una bella
espressione di Parmiggiani, è invece ben presente nell’opera
sacra, assai poco stereotipata sotto il profilo iconografico. Nelle
figure dei santi Messina evita accuratamente i cliché (nessun
sguardo vacuo al cielo) per fare sprofondare le figure, mente e
corpo, al nucleo dell’esperienza. Il tema sacro è forse quello
dove Messina ha occasione di esplorare il registro drammatico (sulla
lezione di Donatello), altrimenti in lui poco consueto (e invece
centrale in Marini e Manzù). Si prendano ad esempio i diversi
bozzetti per “Adamo ed Eva”, dove anche la materia si fa
inquieta, o il monumento romano a Santa Caterina, con l’avanzare
contratto ma inesorabile della mistica; o infine il “Giobbe”, il
capolavoro di tutta la sua carriera (insieme al monumento a Pio XII),
opera raramente esposta: dove la figura obliqua e pericolante
dell’uomo anziano trova la sua ragione statica nella solidità
interiore. Questo approccio psicologico al sacro, che anima anche le
opere minori, è l’apporto più importante di Messina al problema
dell’arte religiosa. Sotto la patina della tradizione Messina fa
pulsare la carne. Se l’appartenere alla modernità non è tanto una
questione linguistica ma di sentire, è questo il lasciapassare che
consente a Messina di essere non più un classico nel Novecento ma un
classico del Novecento.
Vercelli,
sedi varie, “Francesco Messina”, fino al 27 febbraio
Fotografia
Francesco
Messina, “Giobbe”, 1934
Data recensione: 21/01/2022
Testata Giornalistica: L’Avvenire
Autore: Alessandro Beltrami