La vita dei quotidiani nell’immediato secondo dopoguerra fu ricca di colpi di scena a Firenze
L’anticomunismo e il legame con La Pira, nella
direzione del giornalista fiorentino: il Dna del giornale che per i detrattori
era organo delle sacrestie e delle beghine in un libro di Polistampa
La vita dei quotidiani nell’immediato secondo dopoguerra fu ricca di colpi di
scena a Firenze. La Liberazione comportò l’arresto con l’accusa di
collaborazionismo di Egidio Favi, proprietario della Nazione . La detenzione fu
di breve durata, ma intanto i partiti del Cln si contesero il pubblico del suo
quotidiano. Con accordi che oggi chiameremmo di lottizzazione i comunisti
ottennero il controllo del Corriere di Firenze , ribattezzato Nuovo Corriere
mentre alla Dc toccò La Nazione del Popolo , poi rinominata Il Mattino
dell’Italia centrale e infine Giornale del Mattino.
A sparigliare le carte fu l’assoluzione di Favi, che dopo una sofferta
battaglia giudiziaria, riuscì a recuperare la proprietà della testata.
Riapparsa in edicola, nonostante boicottaggi, La Nazione tornò a essere il
quotidiano più diffuso e sia il Nuovo Corriere sia Il Giornale del Mattino si
trovarono a rivolgersi a un pubblico di nicchia, facendo leva sulla qualità e
aprendosi, soprattutto nella terza pagina, a collaboratori non necessariamente
organici alle aree politiche di appartenenza, grazie a due direttori d’eccezione:
Romano Bilenchi ed Ettore Bernabei. Il primo, ex redattore della Nazione , era
già uno stimato narratore; il secondo era solo un trentenne di belle speranze,
che un acidulo articolo comparso su Belfagor dipingeva come «portato a questa
carica (…) dalla sua onesta povertà di giovane pater familias » (in effetti
ebbe con otto figli, e ne andò sempre fiero). Bernabei però dimostrò subito non
comuni capacità organizzative di «intellettuale pragmatico», facendo di quello
che la rivista di Luigi Russo paragonava a «un grosso bollettino parrocchiale»,
organo «delle sacrestie e delle beghine», un quotidiano innovativo.
Il Mattino , nato povero, grazie a un assegno di otto milioni che il futuro
papa Paolo VI aveva stornato dal fondo per la costruzione di nuove chiese,
crebbe rapidamente e si avvalse di una schiera di collaboratori ricca ed
eterogenea, da Leone Piccioni a Mario Luzi, da Vittore Branca a Domenico De
Robertis, da Oriana Fallaci (che però non vi resse molto) a Mino Caudana,
futura firma del Secolo d’Italia , da Enrico Mattei, in seguito direttore della
Nazione , a Carlo Coccioli, autore di un libro per l’epoca scandaloso, in cui
descriveva la scoperta della propria omosessualità da parte di un cattolico.
Nell’ambito politico, il Mattino di Bernabei, che ne rimase alla guida fino al
1956, quando fu chiamato a dirigere Il Popolo , fu legato alla corrente di
Fanfani e naturalmente a Giorgio La Pira, al suo primo mandato come sindaco di
Firenze, ma anche all’evoluzione del mondo cattolico negli anni della crisi del
centrismo e della guerra di Corea, della diffusione del pensiero di Maritain e
dell’esperienza dei preti operai.
Sul quotidiano sono fiorite molte leggende, che hanno presentato il suo
direttore un precursore del dialogo fra comunisti e cattolici. A smentirle, o
almeno a ridimensionarle, contribuisce ora il bel volume Il Giornale del
Mattino di Ettore Bernabei , (Polistampa) curato da Pier Luigi Ballini, che
costituisce lo sviluppo della mostra organizzata sullo stesso tema nel 2019
all’Archivio storico del Comune di Firenze. I contributi proposti ci parlano di
un La Pira molto lontano dall’etichetta di «pesciolino rosso
nell’acquasantiera» che gli sarebbe stata sovrapposta dai detrattori di destra
e dagli agiografi di sinistra. Il «sindaco santo» appare animato da un
«anticomunismo teologico» che lo induceva a lottare per i diritti dei poveri
proprio per sottrarre consensi al Pci, anche se lo portava a contrapporsi
all’«anticomunismo delle Cascine» di chi si opponeva alla concessione del parco
agli organizzatori delle feste dell’Unità. A rileggere gli editoriali di
Bernabei si scoprono patriottici inviti agli elettori a fronteggiare
«l’avanzata barbarica dell’Oriente scristianizzato» e a far «ammainare la
bandiera rossa per issare il nostro glorioso tricolore», mentre nelle pagine
culturali, il necrologio di Giovanni Papini, «modello da additare ai giovani»,
esalta le «bellissime pagine di Italia mia », l’opera di maggior compromissione
dello scrittore col regime, come «espressione di ardente devozione alla
patria».
Illuminante, sotto questo profilo, è il denso contributo di Piero Roggi,
storico dell’economia e già assessore nella giunta Primicerio. A suo giudizio
Bernabei «si smarcò rispetto al maritainismo di Montini e di Moro, rifiutò il
compromesso storico e rimase sempre un convinto anticomunista».
All’atteggiamento compromissorio col Pci del pontefice e dello sfortunato
leader Dc, fondato sulla convinzione che il comunismo avrebbe finito per
trionfare, lui e «quel lottatore per la vita eterna che fu Giorgio La Pira»
contrapponevano la persuasione che il comunismo andasse «fronteggiato a viso
aperto». Roggi, rapito dal Covid prima dell’uscita di questo volume, non ha
potuto veder pubblicato il suo saggio, la cui lettura è caldamente consigliabile
a chi voglia comprendere oltre il mito i reali orientamenti di Bernabei e del
suo Giornale del Mattino.
Data recensione: 04/12/2021
Testata Giornalistica: Corriere fiorentino
Autore: Enrico Nistri