Un uomo entra in scena. Si siede a un tavolo. Beve un sorso di vino che però sputa: è robaccia. Dà un’occhiata alla foto della nonna
L’attore al Niccolini con “La lettera”, uno spettacolo
ispirato da Queneau, che gira il mondo da trent’anni “Così cracco gli stili”
Un uomo entra in scena. Si siede a un tavolo. Beve un sorso di vino che però
sputa: è robaccia. Dà un’occhiata alla foto della nonna. Poi scrive una
lettera. La imbusta, ci appiccica il francobollo. Ma quando si alza per spedirla,
spunta il dubbio: nella penna c’era l’inchiostro? Controlla. Non c’era. Si
rende conto che non ha scritto niente. Deluso, esce. Il plot de La lettera, lo spettacolo di culto che
Paolo Nani — attore d’altrettanto culto, italiano ma emigrato nel 1990 in
Danimarca — porta in giro dal 1992 in tutto il mondo, dal Giappone alla
Groenlandia (e finalmente da stasera alle 19,30 al Niccolini), è tutto qui.
Solo che il sipario cala dopo che quella storia viene ripetuta 15 volte, in una
gradazione di assurdità comica sempre più alta, secondo versioni differenti
della stessa storia come Queneau fa nei suoi irresistibili Esercizi di stile.
Mimo senza aver studiato mai quest’arte, clown che ha lasciato il naso rosso e
i trucchi circensi nel cassetto, attore senza (o di pochissime) parole sulla
scena, Nani si definisce artista che «cracca gli stili», che li usa in modi non
consentiti dal galateo teatrale a favore di effetti speciali comici fatti di
niente, evaporanti. E per questo efficacissimi.
Dietro tanta ilarità c’è in realtà un attore drammatico che, trent’anni fa,
dopo la militanza nel Teatro Nucleo (compagnia storica italoargentina del
teatro di ricerca), sente di avere una vena comica. E di volerla approfondire. Con
Nullo Facchini (regista de La lettera)
decide di avventurarsi sulla strada della risata, «e quando Nullo mi propone la
trama — racconta — io rimango di sale. Ma che roba è? Follia? Invece,
costruendo lo spettacolo giorno per giorno secondo l’idea delle variazioni su
un tema, quella basicità si è rivelata vincente. Dentro ci abbiamo messo di tutto:
il western, il cinema muto, la clownerie». Lo spettacolo mica è compiuto. Anzi,
continua a crescere: «Sono un divoratore di serie tivù, di cartoni animati a
cui rubo sempre nuovi dettagli, portandoli poi in scena. Le prime versioni
erano lente e silenziose: ora La lettera
ha un ritmo vertiginoso, il palcoscenico è pieno di microfoni che percepiscono
ogni minimo suono». E la sfida ai tempi comici è portata al parossismo: «C’è una
“cornice” dello spettacolo che è prefissata, stabilita a priori; all’interno, ho
grandi margini di libertà e improvvisazione, come un jazzista. Il fatto è che
non devo annoiarmi. Anche se il rischio esiste. Quindi studio continuamente
espedienti per alzare i livelli di adrenalina. Persino gli incidenti di
percorso sono i benvenuti, perché li trasformo in occasioni drammaturgiche
imperdibili».
Se non fosse stato un attore drammatico, innamorato pazzo dell’Odin Teatret
(«vederli è stato uno dei motivi per cui faccio teatro»), non sarebbe mai
diventato quel meccanismo ad orologeria della risata che La lettera innesca sul palco: «Fin da ragazzino ho capito che c’era
in me un lato comico. Si rivelò con pienezza a scuola, dove la mia
introversione rimase colpita dalla reazione che i più fighi della classe ebbero
quando raccontai una barzelletta. Tutti ai piedi di questo povero piccolo
imbranato. Una rivalsa. L’invidia mi fatto da motore: andavo a vedere Bustric o
Bolek Polívka, e rosicavo per le reazioni che suscitavano nel pubblico». E poi
se non conosci le lacrime, dice, come puoi far ridere? «Tutti i grandi attori
comici sono anche grandi attori drammatici. Robin Williams, Jim Carrey, Gigi
Proietti, Totò, Antonio Albanese. La maschera drammatica dà spessore a quella
comica, aiuta a non cadere nella macchietta senza profondità». E chi se non il
clown si dibatte tra risate e pianto sentendosi sempre a suo agio? Per
qualunque attore essere definito pagliaccio sarebbe un’offesa, per lui no. Per
lui che con tre oggetti di scena crea mondi interi, come avveniva nella commedia
dell’arte: «La riduzione degli optional accresce le possibilità sceniche,
aguzza l’ingegno. I principi fondamentali dei miei spettacoli sono gioco,
stile, timing. E per gioco intendo conflitto. L’uomo è biologicamente attratto
dai problemi, dagli impedimenti, dalle difficoltà: senza le tragedie e le
disgrazie, i telegiornali avrebbero chiuso chissà da quando. E se Romeo e
Giulietta si fossero sposati, ce ne saremmo fregati di loro».
Data recensione: 18/11/2021
Testata Giornalistica: La Repubblica
Autore: Fulvio Paloscia