A compensare almeno in parte, e almeno per la comunità degli studiosi, la scomparsa, sopravvenuta troppo presto
A compensare almeno in parte, e almeno per la comunità degli
studiosi, la scomparsa, sopravvenuta troppo presto, di Giuliano Tanturli,
ordinario di Filologia della Letteratura Italiana nel Dipartimento di Lettere e
Filosofia dell’Università di Firenze, giunge intestata a suo nome la raccolta
anastatica di lavori personali: La
cultura letteraria a Firenze tra Medioevo e Umanesimo. Scritti 1976-2016, a
cura di Francesco Bausi, Anna Bettarini Bruni, Concetta Bianca, Giancarlo Breschi,
Teresa De Robertis. Si tratta di ventitré saggi già editi in oltre quaranta anni
di ricerca, insegnamento e promozione di iniziative accademiche, non ultima l’organizzazione,
nell’ambito del Dipartimento, del dottorato di ricerca e in stretta connessione
di quel Seminario di Filologia, che nella stessa sede ancora continua,
intitolato adesso alla sua memoria. Ed è proprio per mantenere vivo il ricordo
di un’attività tanto proficua di originali acquisizioni che è parso giusto presentarne
e riunire in un’unica pubblicazione gli studi più rappresentativi, dedicati nel
complesso ad argomenti disposti sulla pagina in ordine all’incirca cronologico
dallo Stilnovo all’età laurenziana: due secoli densi di temi e problemi letterari
che meriteranno l’attenzione di chi si occupi di filologia e critica dantesca,
medievale e umanistica, e lo faccia in particolare da specialista.
Infatti, la lettura dei singoli saggi non è affatto semplice, è bene darne
subito avviso. La lingua di Giuliano Tanturli è ostica e impervia, refrattaria
alla scorsa veloce, non solo per il tecnicismo della disciplina. In effetti se,
come sostiene Nietzsche, la filologia è l’arte che insegna a leggere
lentamente, l’approccio paziente è spesso esigenza comune a oggetto e strumenti
critici: gli studi stessi su testi e stemmi, per una sorta di contiguità, se
non di sovrapposizione metaletteraria. Qualcosa di simile accade nella presente
miscellanea, che in più adopera una scrittura arcaizzante per vocabolario e
costrutti sintattici del toscano colto, sebbene spesso prossimo al parlato,
quello almeno di una volta: frequenti (non sempre limpide) ellissi, costruzioni
impersonali o inversioni nell’ordo
verborum; usi lessicali per lo più ignoti fuori dalla Tuscia (e ormai anche
dentro, almeno per le generazioni più giovani) con espressioni avverbiali come
«punto» o «di molto» e verbi come
«arrabattare», «garbare» e addirittura «disgarbare»; grafie poco comuni, quali
«Vergilio», «Restoro d’Arezzo» o «quistione», ma soprattutto l’autentica
sphragis del verbo «resultare», che ripetuto in molteplici forme flesse, perfino
nei suoi derivati (es. il sostantivo «resultato») fornisce la testimonianza piena
di come l’intera veste linguistica sia il frutto di una precisa e consapevole, ostinata
scelta stilistica, evidente come tale non solo per l’impiego insistito e
ribadito, ma in particolare da passi come il seguente, a p. 209, dove alle
forme più ordinarie dell’italiano, quello dei luoghi citati da lavori altrui, a
breve distanza si alternano i toscanismi arcaici (o gli arcaismi toschi): «Ma
il fatto è che in diversi casi non di correzione si deve parlare, ma di
collazione, come, difatti, il Lippi stesso fa, quando parla di periodi di ?1 (e
li riporta) “in cui risultano sovrapposte le traduzioni della red. A e della
red. B”. Ma perché resultano sovrapposte?». Non disgarberebbe, come avrebbe
detto Tanturli, definire il suo modo di scrivere «sallustiano», e anzi
paragonarlo alla prosa di Tito Livio con la differenza però che rispetto all’enigmatica
patavinitas, la sua fiorentinità
appare chiara a misura delle riconoscibili, note peculiarità vernacole. È
infatti, a ribadire certa continuità di forma e contenuto, il volgare toscano,
e un volgare già ritenuto forte di radici e propaggini secolari assai prima, ma
soprattutto dopo (e nonostante) la proposta del Bembo, il reale protagonista di
una vicenda culturale unitaria qual è quella che la miscellanea, giusta il
titolo scelto a proposito, riconosce travalicare partizioni spesso troppo
rigide di tempo e ambiti linguistici. Alla diglossia, intesa come fluida osmosi
con il latino, sfuggono solo pochi fra gli autori esaminati, e per quei pochi,
come Guido Cavalcanti, si pone prima di tutto il problema del disdegno per
l’idioma classico, o per metonimia verso il suo maggiore poeta.
Roberto Angelini
Data recensione: 01/12/2020
Testata Giornalistica: Medioevo Latino
Autore: ––