Un “mini romanzo” per raccontare l’evoluzione – e la crisi – del mestiere del giornalista. Marco Gasperetti
Dalla lettura de “La società dei giornalisti estinti” (Mauro
Pagliai Editore) un confronto con Marco Gasperetti, giornalista e docente di
Giornalismo online all’università di Pisa, sulla crisi del settore e sugli
scenari futuri. Il tutto attraverso il racconto di come è cambiata la vita
dentro le redazioni negli ultimi quarant’anni.
Un “mini romanzo” per raccontare l’evoluzione – e la crisi – del mestiere del
giornalista. Marco Gasperetti, livornese, tra i fondatori del pioneristico
Webteam Espresso Finegil, una delle prime, grandi esperienze di informazione
digitale in Italia, oggi al Corriere della Sera e docente di Giornalismo online
e didattica multimediale all’università di Pisa, ha scelto una strada, diciamo
così, particolare per spiegare a lettori (e addetti ai lavori) cosa è accaduto
nel mondo dell’informazione negli ultimi trent’anni. Trent’anni in cui la
tecnologia ha “trasformato profondamente la società” e, quasi come conseguenza,
in cui il giornalismo ha dovuto cambiare “forma e sostanza”.
Di fatto, racconta Gasperetti creando un suo alter-ego e fondendo e mutando
personaggi reali in protagonisti di fantasia, il mestiere del reporter si è
evoluto e tanti sono stati costretti “a ripensare il proprio ruolo”. Il
problema: “Spesso i giornalisti hanno visto nei nuovi mezzi telematici una
minaccia e non un’opportunità”. Ecco spiegato il primo gradino che avrebbe
portato alla crisi del secondo decennio degli anni Duemila. Crisi nella quale
siamo ancora immersi fino al collo.
Il protagonista di questa storia, spiega l’autore, “ricorda gli inizi della sua
carriera in un mondo fatto di persone e passione più che di internet e pc,
finché la nostalgia non sfocia in un progetto folle: fondare un nuovo giornale
che profumi di inchiostro, carta e piombo”. Ecco “la società dei giornalisti
estinti”.
Com’è nata l’idea di questo mini-romanzo al
posto del “solito” saggio?
Ho lavorato a questo libricino nel periodo del lockdown. L’idea mi è venuta da
alcuni stati d’animo provati in quelle settimane. Il primo, quello un pochino
nostalgico – che però nostalgico non è fino in fondo – di chi, dopo quarant’anni
di lavoro, vicino alla pensione, rivive un po’ la sua vita professionale e
ripensa a com’è cambiato il proprio lavoro. Io ho avuto la fortuna, che per
molti è in realtà una sfortuna, di vivere due rivoluzioni: dal caldo al freddo,
dal piombo ai pc, e l’avvento di Internet. Potremmo aggiungerne una terza,
quella che stiamo vivendo ancora oggi, e che riguarda la possibilità da parte
di “tutti” di fare comunicazione attraverso i social. Ma qui dovremmo aprire un
dibattito infinito e non penso sia il caso.
Posso essere sincero? Concordo. Restiamo
alla professione del giornalista per come la racconti in “La società dei
giornalisti estinti”.
Bene. Da venti anni insegno all’università di Pisa come professore a contratto,
un incarico che mi è servito soprattutto per continuare a studiare, ad
aggiornarmi professionalmente. La scintilla per raccontare questo mondo
dall’interno mi è venuta più o meno un anno fa, quando ai miei studenti,
un’ottantina, ho chiesto in quanti leggessero un giornale di carta. Premessa:
parliamo di ragazzi già con la laurea triennale, quindi – banalizzo – con una
cultura di un certo livello. Sai la risposta? Zero. Nessuno. Nemmeno uno.
Attenzione: leggono i quotidiani in internet, in pdf, cambia il materiale, il
supporto. Leggono. Il problema è che non hanno concezione di cosa sia un
giornale oggi e quale la sua evoluzione. In quei giorni stavo lavorando a un
altro libro che uscirà prossimamente sulla scuola di Palo Alto dal titolo
“Impossibile non comunicare”. Un libro accademico. Mi sono fermato e ho buttato
giù questo libretto.
Un mini-romanzo di formazione,
permettimi.
Non sei il primo a definirlo così. Ho cercato di spiegare, in maniera spero
divertente, con molti aneddoti, piccoli racconti vissuti anche se romanzati, un
personaggio che assorbe più personaggi. E così ho raccontato la vita e
l’evoluzione di un giornale di provincia, dal piombo ai social.
Forma e sostanza, dicevamo. Dal racconto
emerge una questione che mi trova molto d’accordo: oggi si pensa – quando si
parla di “innovazione” – troppo al supporto e poco ai contenuti. Sembra più
importante trovare il format innovativo, rivoluzionario, nuovo, che non il
giusto contenuto. Esagero?
Nel 1996 iniziai con diversi colleghi a formare questo “web team”. La
multimedialità era agli albori e si parlava soprattutto di contenuti e di come
questi dovevano essere pensati – o ripensati – evitando di gestire solo una
traslazione di quei contenuti dalla carta al digitale. Il problema è che in
poco tempo gli editori – tutti, sia chiaro – videro in questa “new economy” un
vero e proprio business, concentrandosi così unicamente all’aspetto commerciale
e tralasciando il cuore di questa rivoluzione: la comunicazione giornalistica.
Certo, al tempo non si poteva nemmeno immaginare il crollo dei quotidiani su
carta, ci ripetevano e ci ripetevamo che l’Italia era diversa dagli Usa. E
invece è accaduto: anche gli italiani hanno perso l’abitudine, perché questa
era, di andare la mattina in edicola e di camminare tutto il giorno con il
proprio quotidiano sottobraccio. Paradossalmente, ai contenuti hanno pensato i
blogger, non i giornalisti.
Nel libro il protagonista racconta
concretamente questa evoluzione, cosa è accaduto con l’arrivo della prima
“macchinette” in redazione. Come hai vissuto questa transizione?
Quando siamo passati dall’impaginazione a caldo a quella a freddo, e ancora con
la rivoluzione delle “macchinette”, in ogni passaggio mi sono sentito un po’
come i blogger o gli influencer di oggi, anche se – permettimi – con una maggiore
educazione perché guardavi i colleghi più anziani con meraviglia e stima e non
con livore e astio. Nelle redazioni la rivoluzione sarebbe passata quasi
indenne se non fosse stato per gli editori che hanno pensato unicamente a
cavalcare l’onda del business. Io ho sempre guardato al futuro con entusiasmo,
i contenuti c’erano e “li facevamo”. Ma li inserivamo in un raccoglitore di
pubblicità.
Domanda doppia. La prima: perché i media
tradizionali sono entrati in crisi? La seconda: si poteva non entrare in crisi?
La crisi del giornalismo è una crisi strutturale. Oggi internet ha modificato
definitivamente il sensorio delle persone, portando a termine la rivoluzione
iniziata col passaggio dalla radio alla tv. Le nuove generazioni sono
unicamente visive, non sono tattili. Potrei dire, semplicemente e scadendo
nell’ovvio, che gli smartphone hanno rivoluzionato tutto. In fondo il titolo di
un articolo è un tweet e se andiamo ad analizzare quanto si legge di un
giornale cartaceo scopriremmo che si leggono le prime righe e poi si salta,
altre prime righe e altro salto. Il giornale è oggi un ipertesto. Questa è
stata la rivoluzione che ha travolto il giornalismo.
Il racconto si chiude però con un
messaggio positivo. L’ultimo capitolo dal titolo “La crisi dei media
tradizionali” si chiude così: “Credo che l’ultima pagina del giornalismo non
sarà mai scritta”.
L’ancora di salvezza sono i giovanissimi. Pensate alla musica: chi ha fatto un
po’ di conservatorio è chiaro che la può capire meglio di chi non l’ha
studiata. Chi la sa leggere ne gode meglio di chi si limita ad accendere
Spotify. Lo stesso principio vale per il giornalismo: la comunicazione non
dovrebbe essere insegnata all’università, o meglio, solo all’università, ma già
dalle elementari. Ci sono stati grandi pedagogisti, nella storia, che hanno
portato la tipografia in classe: penso a Célestine Fréinet che nella Francia
degli anni Trenta, in una scuola elementare delle Alpi Marittime, trasformò il
metodo di insegnamento in una straordinaria esperienza di comunicazione e
simulazione. È così che gli scolari, dopo aver appreso l’arte della stampa, si
trasformarono in cronisti andando a caccia di notizie. A scuola studiavano le
scienze naturali su un libro di testo, fuori, nei campi, sui prati, nel bosco,
si annotavano tutti i segreti della natura, si raccoglievano materiali e poi si
scriveva, si intervistavano esperti, dal direttore dell’orto botanico al
giardiniere della scuola. Arrivarono addirittura a intervistare il sindaco e
chiedevano, con ingenua fermezza, perché le strade non fossero asfaltate o
perché l’acquedotto fosse ridotto un colabrodo. Perché la scuola non avesse
abbastanza soldi. Perché i contadini non avessero una scuola. Facevano domande
cercando di simulare i giornalisti. Oggi, con le nuove tecnologie, si potrebbe
insegnare alla scuola dell’obbligo a capire come si formano le notizie, come riuscire
a valutarle: non servirebbe neanche più dover produrre il giornalino in classe:
basterebbe aprire un blog, un piccolo sito di informazione autoprodotto. Così
potremmo avere futuri lettori più attenti, capaci e in grado di valorizzare il
giornalismo. In fondo, per vendere un giornale – su qualsiasi supporto, sia
chiaro – servono persone che sappiano, riescano, vogliano leggerlo.
Data recensione: 01/09/2020
Testata Giornalistica: Micromega
Autore: Daniele Nalbone