La mia amicizia con Turoldo era nata in seguito alla pubblicazione negli anni 1982-1984
Anticipazione. Il testo del cardinale Ravasi dedicato a
padre David per la «Nuova Antologia»
La mia amicizia con Turoldo era nata in seguito alla pubblicazione negli anni
1982-1984 di un mio sterminato commentario ai Salmi: tre volumi di oltre tremila pagine che Turoldo aveva
studiato, riletto e approfondito. Per questo mi aveva cercato e aveva iniziato una
consuetudine durata poi per anni. Nel pomeriggio di ogni domenica scendeva
dalla sua abbazia di Sotto il Monte, il luogo di nascita di san Giovanni XXIII,
a casa dei miei familiari a Osnago (Lecco), ove io mi recavo dal Seminario Arcivescovile
Milanese in cui allora insegnavo.
In quelle ore parlavamo a lungo, egli mi leggeva i suoi testi, accoglieva con
un’umiltà assoluta anche le mie riserve, ci si inoltrava lungo i sentieri teologico-letterari
di altri libri biblici che io allora stavo commentando come Qohelet e il Cantico dei cantici, destinati a diventare materia di altre sue
riflessioni o poesie. Di quei pomeriggi, che mi resero padre David amico e interlocutore
intimo, c’è una testimonianza curiosa che fu anche la «sorpresa» estrema che
egli volle farmi. Infatti alla sua ardua opera postuma, edita nel 1992, Il
dramma è Dio (ma il titolo originale era Il
dramma è di Dio), aveva apposto una lettera a me destinata ma che aveva
voluto rimanesse segreta fino al momento della pubblicazione del libro. La
lessi, perciò, quando ricevetti l’opera stampata ed egli era morto da un paio
di mesi. Eccone il testo, datato «Festa dell’Ascensione 1991».
«Gianfranco, mi perdonerai di chiamarti sempre così: amico delle mie – delle
nostre – domeniche. È per riconoscenza di questa amicizia e di quei nostri
conversari, nell’atrio della tua casa, smentendo che quella sia l’ora del
“demone meridiano” (tanta invece era la serenità e la gioia di quei nostri
amati colloqui); è per sdebitarmi, dico, del dono di una così ricca amicizia
che ora ti dedico questo lavoro... convinto che mi perdonerai di aver osato apparire
come un invasore del tuo campo biblico. Ma tu sai che non è vero. Tu più di altri
sai con quanto timore e tremore mi accosto a questi abissi; e quanto mi
conforta il rispetto verso di voi, insostituibili interpreti. È poi noto che
scrivo soprattutto per gli amici...; per gli amici antichi, quelli della
resistenza per l’“Uomo”: presenze che sempre evoco nelle mie dediche, al fine
di continuare appunto a “resistere”».
Da queste righe emerge in modo nitido il nesso intimo tra amicizia e fede, tra
dialogo e ricerca sulla Parola di Dio, tra poesia e confessione. Un connubio
che aveva retto tutta la sua vita, a partire dalla sua nativa Coderno in Friuli
fino nei sotterranei della lotta antifascista, tra gli echi delle volte del
Duomo di Milano ma anche nella familiarità calda di Nomadelfia, dall’amatissimo
ritiro per nulla eremitico di Sotto il Monte alle sale, alle aule, alle piazze vocianti,
da un lontano Canada fino ai piccoli centri, fino appunto al villaggio
bergamasco o a quelli di altre regioni italiane.
La sua figura imponente e sanguigna, dalla quale fuoriusciva una voce da
cattedrale o da deserto, temperata dall’invincibile sorriso degli occhi chiari,
aveva proprio nella Parola biblica il suo alimento vitale. «Servo e ministro sono
della Parola», si era autodefinito, consapevole che ormai tutto il suo essere si
era trasformato in «una conchiglia ripiena» dell’eco di quella parola infinita
come il mare.
A lui era profondamente caro il verso di un altro suo amico, unito nella fede e
nella poesia, Clemente Rebora: «La Parola zittì chiacchiere mie». Per questo un
suo affettuoso ammiratore — interamente ricambiato — come il cardinale Carlo
Maria Martini, nella presentazione del volume Opere e giorni del Signore, aveva comparato padre Turoldo a Efrem
Siro e a Romano il Melode, Padri della Chiesa d’Oriente, straordinari autori di
omelie bibliche cantate. Bisognerebbe in modo sistematico rileggere l’immensa produzione
poetica turoldiana proprio inseguendone la filigrana biblica. Per quel poco che
ho potuto annotare nelle mie letture, il flusso letterario di questo «cantore delle
dense ore di Dio» copre l’intera sequenza delle Sacre Scritture, dalla Genesi,
con l’irrompere della creazione dal grembo del nulla, fino all’Apocalisse e al
suo sospiro finale del Maranathà, «Vieni Signore», passando soprattutto attraverso
il suo costante compagno di viaggio, il libro dei Salmi. La pagina turoldiana è
come un intarsio di citazioni, allusioni, ammiccamenti, evocazioni bibliche: il
suo è lo spartito della Parola divina orchestrata in parole. Per usare liberamente
un’immagine dello scrittore mistico ebreo Abraham J. Heschel, potremmo dire che
ogni poesia di padre David è da esaminare come una foglia alla trasparenza della
luce solare: se il tessuto connettivo è la storia con le vicende personali e
sociali, il reticolo che sostiene, alimenta e impedisce ogni raggrinzimento o
dissolvimento è la Scrittura Sacra.
Questo intreccio tra Parola e parole, tra storia divina e storia umana, fu
sempre anche alla radice del suo impegno nell’incarnazione del cristianesimo. Un
impegno che si attestava spesso sulle frontiere più roventi o nei territori più
disabitati da presenze religiose. I rischi di queste incursioni erano evidenti
e sono a tutti noti. Ma padre Turoldo ha sempre tenuto alta la fiaccola della
speranza cristiana, convinto che Dio è con noi «vagabondo/ Una voce dal roveto
ardente a camminare sulle strade,/ a cantare con noi/ i salmi del deserto». Convinto
anche che la meta ultima della storia è trascendente, là dove «le lettere del divino
Alfabeto/ saranno in fiore per il Cantico Nuovo».
E dobbiamo riconoscere che nei nostri giorni così superficiali, chiusi e
persino ottusi, sarebbe ancor più necessaria la voce di Turoldo che inquietava
la pigra pace delle coscienze col fuoco di quell’Alfabeto che risuona dal
roveto ardente.
Data recensione: 06/01/2020
Testata Giornalistica: Corriere della Sera
Autore: Gianfranco Ravasi