Sulla lapide della sua tomba a Firenze volle che sotto il nome fosse scritto semplicemente«un italiano»
Ritratti. A25 anni dalla morte Cosimo Ceccuti ricorda il
direttore del «Corriere» che poi fu capo del governo. Coltivava i valori del
Risorgimento, aveva un profondo senso dello Stato
Sulla lapide della sua tomba a Firenze volle che sotto il nome fosse scritto semplicemente «un
italiano». E certo Giovanni Spadolini, scomparso 25 anni fa il 4 agosto 1994,
all’identità nazionale del nostro Paese teneva in modo appassionato e ostinato.
Fu capo del governo tra il 1981 e il 1982, il primo non democristiano a Palazzo
Chigi dopo la fine della monarchia. Guidò il «Corriere della Sera», la testata
di maggior diffusione e prestigio, nata a Milano per opera di un garibaldino napoletano.
Fu segretario del Partito repubblicano, erede delle battaglie patriottiche di
Giuseppe Mazzini. Tenne a battesimo il ministero dei Beni culturali, che prima di
lui era «senza portafoglio», per garantire una tutela organica del nostro patrimonio
artistico, bibliotecario e paesaggistico. Nella doppia galleria di ritratti Gli uomini che fecero l’Italia, uno dei
suoi tanti libri, Spadolini non nascondeva la tendenza a immedesimarsi in
alcuni dei personaggi rievocati. E in generale tutta la sua opera storiografica,
giornalistica e politica, così come la evoca il suo stretto collaboratore ed
erede culturale Cosimo Ceccuti nel volume Giovanni
Spadolini. Quasi una biografia (Edizioni Polistampa), fu rivolta a
illustrare e difendere, sia pure con uno spirito critico, i valori del
Risorgimento.
Nato nel 1925, da ragazzo a Firenze aveva ammirato il filosofo Giovanni
Gentile: gli scritti sulla rivista fascista «Italia e Civiltà» gli sarebbero
stati poi rinfacciati in modo gratuito e malevolo da avversari politici a corto
di argomenti. Ma già nell’immediato dopoguerra, poco più che ventenne,
Spadolini aveva compiuto scelte ideali dalle quali non si sarebbe più
discostato. Non a caso la sua firma appare sul «Mondo», il settimanale
liberaldemocratico diretto da Mario Pannunzio, sin dal primo numero, datato 19
febbraio 1949.
La carriera di Spadolini fu rapidissima, favorita da un talento precoce e
brillante. I suoi primi libri di storia affrontavano i nodi più delicati nel
percorso dell’Italia liberale postunitaria: il rapporto con la Chiesa cattolica
e con le masse escluse dalla vita politica, il disagio delle correnti
patriottiche democratiche rispetto alle istituzioni monarchiche. Poi sfondò nel
giornalismo: nominato direttore del «Resto del Carlino» nel 1955, non ancora
trentenne, approdò alla testa del «Corriere» nel 1968 e si trovò ad affrontare
la fase più aspra delle agitazioni giovanili e operaie, poi il trauma della strage
fascista di piazza Fontana.
Sostituito a via Solferino da Piero Ottone nel 1972, Spadolini fu eletto
senatore nelle liste del Pri e due anni dopo divenne ministro dei Beni
culturali nel governo Moro-La Malfa. Fu l’avvio di un’altra ascesa
impressionante in campo politico, culminata nella presidenza del Consiglio
raggiunta nel 1981, con il compito immediato di porre riparo ai guasti dello
scandalo P2.
Benché potesse apparire un personaggio ottocentesco, Spadolini sapeva usare i mezzi
di comunicazione moderni, in sintonia con l’allora capo dello Stato Sandro Pertini.
La sua mole faceva la gioia dei vignettisti. Inventò formule efficaci come le
«quattro emergenze» e il «decalogo istituzionale », seppe interpretare
l’euforia di un Paese che usciva dall’incubo degli anni di piombo nei giorni
del Mondiale spagnolo vinto dagli azzurri di Enzo Bearzot nel 1982,
affacciandosi da Palazzo Chigi di fronte alla folla festante.
Mediatore per indole, tendeva a stemperare i contrasti, ma sapeva puntare i
piedi quando riteneva che fossero in gioco quelli che chiamava «interessi
indisponibili» del Paese. Europeista, grande amico degli Stati Uniti e di
Israele, quando i guerriglieri palestinesi sequestrarono la nave Achille Lauro e
assassinarono l’ebreo paraplegico Leon Klinghoffer, nel 1985, mostrò da
ministro della Difesa di aver capito meglio di altri quale minaccia potesse
rappresentare il terrorismo mediorientale.
Soprattutto Spadolini, che fu anche presidente del Senato dal 1987 al 1994,
aveva un forte senso dello Stato: c’era in lui la consapevolezza profonda,
alimentata dagli studi storici, che la libertà non si può dare per scontata e
richiede una continua vigilanza, fondata sulla responsabilità istituzionale. Una
concezione oggi fuori moda, che invece sarebbe urgente recuperare.
Data recensione: 30/07/2019
Testata Giornalistica: Corriere della Sera
Autore: Antonio Carioti