Quando ero uno studente di belle speranze, alla Facoltà fiorentina di Scienze politiche «Cesare Alfieri»
L’anniversario. A25 anni dalla sua scomparsa, un ricordo del
docente della «Cesare Alfieri», giornalista e primo Presidente del Consiglio
laico d’Italia. Domenica le celebrazioni a San Miniato
Quando ero uno studente di belle speranze, alla Facoltà fiorentina di Scienze
politiche «Cesare Alfieri» avevo dei professori fuori dal comune. Giuseppe Maranini,
un anarchico con senso dello Stato. Dopo il fascismo aveva eletto a propria bestia
nera la partitocrazia, un tiranno senza volto. Pompeo Biondi, un geniale
sfaticato che scriveva libri senza note. A differenza dei tanti che scrivevano note
senza libri. Giovanni Sartori, un novello Machiavelli che incantava gli
studenti e ammaliava le studentesse. Silvano Tosi, per il quale il Parlamento e
la storia costituzionale francese non avevano segreti. Alberto Predieri, un
pozzo di scienza senza eguali. E, da ultimo ma primo in tutto, da quell’enfant prodige
che era Giovanni Spadolini.
Coetaneo di Sartori e di Tosi, Spadolini non passava inosservato. Ho seguito le
sue lezioni nell’anno accademico 1960-61. Allora aveva appena trentacinque anni.
Ma ne dimostrava di più. Di proposito, a detta delle malelingue. Sì, perché
s’invecchiava per apparire più autorevole. Le sue lezioni erano seguite con
estremo interesse. Era un fiume in piena. Snocciolava date e uomini del
Risorgimento come fossero suoi contemporanei. La sua ultima lezione la dedicò
all’Unità d’Italia. A un secolo tondo di distanza.
Somarelli com’eravamo, non sapevamo che una volta l’applauso alla fine del
corso era una consuetudine. Ma glielo tributammo con vero piacere. Perché
riuscì a farci emozionare con le sue parole suadenti. Alla fine delle lezioni
come un rabdomante cercava Alfio, lo storico bidello, perché gli procurasse un
telefono. In un’era dove i telefonini erano ancora in mente dei. Di continuo
indaffarato con se stesso, il direttore si metteva in contatto con il suo Il
Resto del Carlino per informarsi delle novità e dettare la linea.
Il mio antico professore in poco tempo riusciva a fare, diavolo di un uomo,
un’infinità di cose. Correggeva bozze di suoi libri che sfornava a getto
continuo: dal Papato socialista all’Opposizione cattolica, da Giolitti e i
cattolici ai volumi sui radicali e i repubblicani dopo l’Unità. Tant’è che con
pieno merito vinse giovanissimo la cattedra di Storia contemporanea senza
appartenere a nessuna conventicola accademica. Anzi, contro non pochi baroni. Che
ne riconoscevano l’ingegno ma non sopportavano di avere come collega — Iddio ci
scampi e liberi — un giornalista. E che giornalista!
Fin dai tempi, poco più che ventenne, in cui divenne una colonna de Il
Messaggero di Mario Missiroli. Oltre che collaboratore di testate di grande suo
libro. Spadolini, primo in tutto, passa da un successo a un altro. Nel 1981
diventa il primo presidente del Consiglio laico e concederà un bis, per qualche
mese, l’anno dopo. Il suo Pri è un partito di grandi tradizioni ma un nano
rispetto a giganti come la Dc e il Pci. Perciò, su suggerimento di Andrea Manzella
e di Tosi, punta tutto sulla forza del diritto. Così pretende una mozione di
fiducia con motivazioni lunghe come un lenzuolo, con l’illusoria speranza di
durare da qui all’eternità. Ma la politica non si fa con il notaio. E il
governo cade.
Tuttavia, tra il suo primo e secondo ministero, tira fuori un asso dalla
manica. Nemmeno fosse Mosè, ecco un decalogo istituzionale che darà i suoi frutti.
Perché con la regola del voto pressoché palese in Parlamento e con la legge
sull’ordinamento della presidenza del Consiglio, Palazzo Chigi non sarà più la
cenerentola d’Europa.
Nell’aprile del 1987 nella redazione romana di Piazza di Pietra, Montanelli mi
arruola nella sua ciurma. Con uno schiaffo e una carezza. Alla toscana. «Voi
costituzionalisti siete una massa d’imbroglioni, ma tu ti fai capire». E il
giorno dopo mi mette in mano un suo articolo, che avrebbe pubblicato l’indomani,
intitolato «I silenzi di Mosè».
Criticava Spadolini perché al congresso del partito non aveva parlato delle
riforme costituzionali. Con un filo di voce mi permisi di ricordargli il
decalogo istituzionale, del quale non aveva contezza. L’inserì nel suo pezzo e
il giorno dopo Spadolini lo ringraziò per essersi ricordato del suo fiore
all’occhiello. Di lì a poco a Milano incontro Spadolini a Il Giornale. Montanelli
gli dice: «Conosci Armaroli?». E lui: «Eh, è stato mio studente!». Un po’
imbronciato con l’amico direttore perché mi aveva presentato all’esordio come
allievo di Maranini e Sartori. E aveva omesso il suo nome.
Presidente del Senato e senatore a vita nominato da Francesco Cossiga, forse
per la prima volta in vita sua Spadolini subisce una cocente sconfitta. Nel
1994, all’inizio dell’XI legislatura, per un solo voto il liberale Carlo
Scognamiglio prevale su di lui e si aggiudica il seggio più alto di Palazzo
Madama. Non avvezzo alla cattiva sorte, la prende assai male. L’avverte come
una beffa. Poco dopo, il 4 agosto di 25 anni fa, stroncato dal male, muore.
Riposa a San Miniato al Monte. Sulla tomba, dopo il nome e il cognome, due sole
parole: «Un italiano». Ce ne fossero, di questi tempi calamitosi, uomini della
sua tempra. Tra le tante altre cose, profumava di bucato. Come diceva,
ammirato, il suo amico Montanelli.
Data recensione: 02/08/2019
Testata Giornalistica: Corriere fiorentino
Autore: Paolo Armaroli