Ventisette lettere scritte dal critico letterario Leone Piccioni al fratello Piero in carcere, tra il settembre e il dicembre 1954
Pubblicate le lettere di Leone al fratello Piero Piccioni
Ventisette lettere scritte dal critico letterario Leone Piccioni al fratello
Piero in carcere, tra il settembre e il dicembre 1954, svelano un punto di
vista finora trascurato del celebre caso Montesi: quello della famiglia. Le ha
scovate casualmente in una busta la figlia di Leone, Gloria Piccioni, ordinandole
quindi in Lungara 29, Edizioni
Polistampa, in libreria con un’introduzione di Stefano Folli, che scrive: «Nulla
come il caso Montesi racconterà di come l’Italia sta cambiando». È una storia
che ci interroga ancora oggi. Nell’aprile del ’53 una giovane donna, Wilma Montesi,
figlia di un falegname, viene trovata morta sulla spiaggia di Capocotta. Il questore
di Roma chiude il caso dicendo che è deceduta in seguito a un malore che l’ha colta
mentre faceva un pediluvio, ma poi spunta una testimone, Anna Maria Moneta Caglio,
battezzata dalla stampa “il Cigno nero”, figlia di un notaio milanese legata a
un marchese romano, Ugo Montagna, che collega il decesso della Montesi a certi festini
della Roma bene tenutisi nei paraggi; la sua verità, confidata a uno zio prete,
finisce in un memoriale fatto pervenire al ministro dell’Interno Amintore
Fanfani, e da quel momento l’affaire Montesi si trasforma in una gigantesca
resa dei conti nella Dc. Il 22 settembre 1954 Piero Piccioni, musicista jazz
tra i più noti, ha appena firmato la colonna sonora del film La spiaggia di Alberto Lattuada, finisce
a Regina Coeli per omicidio colposo insieme a Montagna. Il padre, Attilio Piccioni,
il segretario della Dc nelle fatidiche elezioni del ’48, legatissimo a De
Gasperi, di cui è ritenuto l’erede, è costretto alle dimissioni da ministro
degli Esteri. Lo scandalo, enorme, travolge la famiglia di uno dei padri
costituenti. Vi banchettano in tanti, la destra monarchica, i comunisti, (nel
2009 Piero Ingrao, che all’epoca del delitto dirigeva l’Unità, confiderà a
Stefano Cappellini che la spinta ad occuparsene venne da Fanfani e dai
fanfaniani), le correnti dc, in un feuilleton nero che riempie le cronache dei
giornali per tre anni. È un capitolo del nostro dopoguerra che rivela un
mutamento profondo dei costumi politici, in un groviglio ambiguo tra informazione,
potere, magistratura, che da quel momento si riproporrà molte volte, come
insegna il caso Tortora. «Un caso fondato su elementi inconsistenti», scrive
Folli, che asseconda «senza indugi una certa morbosità dell’opinione pubblica
desiderosa di vedere i potenti alla sbarra». Le lettere squadernano il dolore
di Leone e aprono squarci sull’interno di una famiglia borghese negli anni
Cinquanta alle prese con l’inaudito. «Tutto andrà secondo verità», scrive Leone
nella sua prima lettera e denuncia sin da subito «la diabolica macchinazione politica»
all’origine dell’arresto del fratello. Sono comunicazioni private, nelle quali
scorrono i fatti minuti: la morte improvvisa di Vitaliano Brancati scoperta
aprendo il giornale, l’amata Juventus che soffre in campionato, l’incontro con
Giuseppe Ungaretti, le prime piogge autunnali, l’invito a leggere Dante, i
saluti di Carlo Bo, Mario Luzi, Umberto Saba ed Elio Vittorini, Sandro Pertini che
in Parlamento va incontro a Piccioni esternandogli tutta la sua solidarietà. Piero
Piccioni e Montagna saranno assolti con formula piena a Venezia nel maggio 1957.
Attilio Piccioni nel frattempo ha perso il Quirinale, al quale era destinato
nel 1955, al suo posto vi andrà Giovanni Gronchi. Il caso Montesi quindi offre
numerose lezioni, che non andrebbero dimenticate: purtroppo il libro è privo di
una cronologia ragionata, che avrebbe aiutato a contestualizzare meglio il carteggio.
Paolo Murialdi nel suo La stampa italiana
del dopoguerra 1943-1972, è indulgente con il ruolo dei giornali e sostiene
che «all’origine di tutto ci furono errori da parte di chi, governo, organi di
polizia, magistratura, non doveva commetterne». Scrive in una delle sue ultime lettere
Leone Piccioni: «Penso alle cose normali di sempre, quelle che nel ritmo
normale della vita non si contano più come benefici: suonare il piano, sentir
dischi, giocare a carte, chiacchierare, stare insieme, telefonare agli amici,
giocare a carte, andare al cinema, stare accanto al fuoco». Il caso Montesi è
rimasto irrisolto, come irrisolto è tuttora il rapporto tra stampa, politica e giustizia.
Data recensione: 13/12/2018
Testata Giornalistica: La Repubblica
Autore: Concetto Vecchio