«Io sono un povero diavolo, che scrive come sente, uno spostato, un tale, un tale che a tratti scrive cose buone. Nessuno mi vuole stampare ed io ho bisogno di essere stampato.
«Io sono un povero diavolo, che scrive come sente, uno spostato, un tale, un tale che a tratti scrive cose buone. Nessuno mi vuole stampare ed io ho bisogno di essere stampato. Aggiungo che merito di essere stampato perché sento quel po’ di poesia che so fare, è di una purità d’accento che è oggi poco comune da noi». Così il 6 gennaio 1914, scrivendo a Giuseppe Prezzolini, Dino Campana si presenta a quasi trent’anni (è nato a Marradi nel 1885) ai potenti della cultura del tempo. Con il suo bagaglio di marginalità, è un vero e proprio drop-out che ha girato nel Sud-America e in Europa, ha fatto tutti i mestieri, fin da dieci anni gli è stata diagnosticata una forma di paranoia persecutoria che lo dilania e lo porterà alla perdita del senso reale, al ricovero definitivo presso l’ospedale psichiatrico di Castel di Pulci dove morirà nel 1932. Il 1914 è l’anno della pubblicazione dei Canti orfici, un libro che ha dovuto riscrivere quasi a memoria avendone Soffici perduto il manoscritto originario. Ma campana continua la sua vita randagia, vive una tormentata storia d’amore con Aleramo, impreca ancora contro l’ambiente fiorentino.
Le lettere di un povero diavolo raccolgono in maniera pressoché definitiva (nulla si può però dire concluso in simili ricerche) il carteggio campaniano che Gabriel Cacho Millet ha inseguito per anni con pazienza certosina, determinazione inossidabile e fiuto da detective. Come risulta, per fare un esempio tra i tanti, da una falsa e da una nuova attribuzione fotografica, smontata l’una e conquistata l’altra tra indizi, prove, controprove. Sono un documento drammatico e avvincente che si legge quasi come un romanzo, come capita ad altri carteggi letterari del nostro primo Novecento. Saltando da una lettera a Cecchi a una a Serra alla Aleramo a Boine, s’illumina il fibrillare movimento di questo poeta notturno, nemico di ogni forma istituzionale di tradizione e di potere culturale, il quale in nome di una vera follia, schiumando contro i «cari sciacalli del cupolone fiorentino», tenta il viaggio più radicale: assumere sulla propria esperienza lirica l’alienazione che andava condannando al silenzio la sua persona. Le testimonianze da Castel di Pulci di un Campana quieto e passivo nei confronti del suo precedente destino, dicono di uno smacco conclusivo da cui la poesia campaniana acquista luce per arrivare fino a noi.
Data recensione: 07/01/2012
Testata Giornalistica: Il Messaggero
Autore: Renato Minore