Quando Slow food è nato – scrive Luca Simonetti in Mangi chi può, un pamphlet certamente eccessivo nei toni ma si sicuro aiuto a alla riflessione – il suo manifesto programmatico proponeva la battaglia per una vita dai ritmi più lenti contro la produttivi
Quando Slow food è nato – scrive Luca Simonetti in Mangi chi può, un pamphlet certamente eccessivo nei toni ma si sicuro aiuto a alla riflessione – il suo manifesto programmatico proponeva la battaglia per una vita dai ritmi più lenti contro la produttività identificata con il correre e il consumare. Oggi Slow food è una multinazionale, che ha giornali e reti televisive, presìdi in tutto il mondo, ristoranti e fondazioni. Si batte per i prodotti multi-marchio (dop, igp…) che difendono la genuinità del prodotto locale dalle imitazioni destinate al mercato globale, i vecchi metodi di coltivazione della terra e l’invito alle popolazione indigene minacciate dalla globalizzazione a riprendere i ritmi di produzione di un tempo. Nulla di male, se non per alcune contraddizione implicite nelle strategie sostenute, per esempio il fatto che lo stesso movimento è diventato rapido e produttivo, e che i produttori del parmigiano reggiano non possono battersi per il chilometro zero se devono portare il loro formaggio sulle tavole di un ristorante a Los Angeles o a Mosca: dunque il chilometro zero non è un valore assoluto. Ai produttori di quinoa o di tè non si può chiedere di tornare agli antichi metodi di produzione perché se il loro raccolto è distrutto dagli insetti non c’è nessuna quota a protezione della categoria, come accade per i produttori di latte in Europa. E soprattutto nessuno dice che la stessa FAO riconosce che l’uso delle macchine aumenta il rendimento dei raccolti in maniera esponenziale e consente di nutrire un numero maggiore di persone. Solo per dirne una e riportare l’esempio all’Italia: la battaglia contro l’introduzione del formaggio Asiago dop nei panini McDonald da parte di Slow food è stata a mio parere difficile da condividere: le forniture massicce di buon formaggio ai punti della catena americana hanno permesso di salvare posti di lavoro e introdotto nei panini qualcosa di veramente buono (provatelo, niente male, anche se pur sempre calorico). Stranamente, poi, lo stesso Slow food è sceso in campo a difendere la Nutella obbligata a dichiarare l’eccesso di caloricità del prodotto sulla etichetta delle confezioni, come chiede la UE: certo, dice Petrini, bisogna fare un bel po’ di moto per smaltire le calorie di cacao e nocciole, ma non fa male a nessuno. Chissà perché Ferrero sì e Asiago dop no… Ciò che è naturale non sempre fa bene: la scienza, per chi ha tempo e voglia di capire, lo dimostra, così come ciò che è artificiale può provocare danno, ma nella stessa misura. Il mercato ha le sue leggi, le sue compatibilità e intransigenze, i giocatori corretti e quelli scorretti. Ciò che è davvero insostenibile è la mistificazione di notizie volte a catturare nuovo pubblico, nuove clientele, mascherandole con buone intenzione e difese dei diritti umani. E le donne su questo campo da gioco senza esclusione di colpi sono il boccone più appetibile, perché amministrano la spesa, decidono l’alimentazione dei propri figli, lavorano la terra in numero maggiore degli uomini. Ai cittadini da rispettare andrebbe offerta la possibilità di scegliere, di farsi una opinione chiara a seguito di informazioni corrette, segno di una illuminante gestione democratica della cosa pubblica, che non è né di destra né di sinistra.
Data recensione: 01/09/2010
Testata Giornalistica: Leggendaria
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