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Testamento è opera collocabile in fase estrema del progetto di rinnovamento della scrittura narrativa che Antonio Pizzuto andò gradualmente perseguendo. Apparso quaranta anni fa presso Il Saggiatore, il libro è ripubblicato ora, con commento di Antonio Pa

Testamento è opera collocabile in fase estrema del progetto di rinnovamento della scrittura narrativa che Antonio Pizzuto andò gradualmente perseguendo. Apparso quaranta anni fa presso Il Saggiatore, il libro è ripubblicato ora, con commento di Antonio Pane, a cui molto si deve per la maggior conoscenza dello scrittore palermitano, uno fra i più originali del secolo scorso. Si tratta di venti ‘lasse’, che Gianfranco Contini definì «poemetti narrativi indipendenti ma idealmente connessi, muniti di titoli meramente tonali come in musica, sorta di composizioni di oggetti corrispondenti alla fenomenicità della memoria».
La memoria è, in effetti, leit motiv di queste composizioni dedicate a figure parentali o amicali e soprattutto ai luoghi, alla Erice del testo incipitario («Nonna») o alla casa romana di Fregene e soprattutto alla Palermo degli anni infantili e giovanili dello scrittore, che ci restituiscono la città com’era ai primi del Novecento, oggi radicalmente mutata. Ma diversa, la città, lo era, e non di poco, già negli anni Sessanta, durante i quali egli, che aveva dovuto abbandonarla per motivi di lavoro, ebbe modo di tornare per un paio di interventi letterari, rimanendo sconvolto per le condizioni di degrado in cui aveva rinvenuto luoghi particolarmente cari.
La narrativa pizzutiana è costruita secondo un’estrema sintesi: ogni sillaba è misurata, calibrata, controllata, mentre prevale, nell’andamento, il dato sensoriale. L’A. fa leva su quei grandi timoni che sono i nostri sensi, facendo sua la lezione di un indimenticabile maestro degli anni giovanili: il filosofo Cosimo Guastella, neo-empirista e neo-sensista di grande rigore logico, nel cui pensiero non trovano psoto le astrazioni, autore del ponderoso saggio in tre volumi Le ragioni del fenomenismo (1921), Una concezione filosofica da cui lo scrittore non si distaccherà e attraverso quest’ottica guarderà il mondo e maturerà la propria linea estetica, che cercherà di esemplare nelle sue opere. In un’intervista rilasciata nel 1967 a Bianca Cordaro su «La Sicilia» di Catania ebbe a dire «Per me l’elemento psicologico, l’indagine introspettiva, l’analisi intima sono nulla. Pure astrazioni. E le astrazione nella letteratura contemporanea diventano pettegolezzo».
Un universo narrativo in cui conta, in primo luogo, la scrittura, in Testamento fattasi particolarmente azzardata, a conclusione di un lungo iter mirato a destabilizzare certi canoni narratologici. Ne sono punti fermi l’abolizione dei modi finiti dei verbi a vantaggio di infiniti, participi e gerundi, con revival di ablativi assoluti etc.; abolizione degli articoli e grande parsimonia nell’uso delle preposizioni, specie se articolate (l’avvalersene, il meno possibile, doveva rappresentare per lo scrittore l’equivalente di farsi cavare un dente); scomparsa, con quest’opera, del ‘personaggio’: un colpo grosso. Tali elementi conferiscono al racconto pizzutiano un «aspetto enigmatico», come osserva Pane o come lo stesso A. si era espresso a riguardo, parlando di una «espressività acategorica», di un «indeterminismo sintattico che riflette il correlativo indeterminismo narrativo».
Così, ad es., nell’incipit di «Epicedio»: «Nella dolica auletta avida di luce, attenti e composti in ragione inversa a distanza da cattedra, prossimiori braccia conserte, gomiti spadaccini laggiù sui banchi decumani; per battimenti monotoni sonnifera voce, fra un tordear col gessetto, mentre fraseosa posto agguato, ammoniva loica non si può, è deponente. Tre. Sguardo eschileo d’incoercibilità, indice insù pitocco, imminente leva disertore, protervo era in vigilanza alla scotta, si rimpatriasse quell’altro.»
Un’aula scolastica? Certo. È il curatore a dirci – et ab uno disce omnes -, scavando in corrispondenze ed altro, che il testo è ispirato al compagno di scuola Benoit Sommariva (deceduto nel 1966 nella sua abitazione di Via Maqueda n. 68 a Palermo), la cui amicizia con l’autore risaliva al 1907, quando i due furono compagni nella IV B del Ginnasio-Liceo Meli, allora ubicato in un’ala del Collegio San Rocco, sempre in Via Maqueda, oggi sede della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università. L’auletta di cui si legge all’inizio («avida di luce», semibuia, più lunga che larga e perciò «dolica», alla greca) era ubicata in quel vecchio edificio che era stato degli Scolopi. E così via, per ogni altro particolare, per ciascuna lassa, per la varietà tutt’altro che esile di riferimenti lessicali. Un corposo corredo che consente al lettore un’immersione nel testo, un approccio globale, non più esclusivamente affidato al ritmo, alla musicalità (anche in senso mallarmeano), di cui la scrittura pizzutiana è generosa, e alle sensazioni immediate (che alcune immagini o, ad es., l’insostituibile aggettivazione etc., suggeriscono), come, con molta probabilità, Pizzuto avrebbe preferito che fosse letto Pizzuto. Ma una lettura più consapevole non sminuisce il fascino dell’approccio, anzi lo potenzia.
La ricca mole di indicazioni, precise, filologicamente corrette, che Pane fornisce, rende le lasse ghiotte di quei significati che forse l’A. si era ingegnato di velare o di micronizzare. Se il comporre pizzutiano può compararsi a un’operazione di liofilizzazione letteraria, le chiose di Pane possono farsi equivalere all’elemento da reintegrare, vale a dire l’acqua, affinché il liofilizzato sia perfettamente degustabile. Si ha l’impressione, a volte, di una ricostruzione del percorso mentale effettuato dall’A. nell’atto creativo. Del resto, l’impegno a sfatare il mito (o la diceria) della ‘illeggibilità’ di Pizzuto, non è recente, nello studioso. Basti far riferimento al suo libro, del 1999, intitolato, appunto, Il leggibile Pizzuto.
Data recensione: 01/12/2009
Testata Giornalistica: Arenaria. Ragguagli di letteratura
Autore: Lucio Zinna